Madiba, il leader sudafricano simbolo della lotta all’apartheid e premio Nobel per la pace, si è spento oggi all’età di 95 anni. Il ricordo di Wired

Il suo secondo nome, Rolihlahla, aveva qualcosa di profetico. In lingua Xhosa, la sua etnia di appartenenza, vuol dire più o meno attaccabrighe, o colui che provoca guai. E in effetti Nelson Mandela, il leader sudafricano morto oggi a 95 anni a Pretoria, dopo settimane di salute incerta, non ha condotto quella che si dice una vita tranquilla, sacrificando tutta la sua esistenza alla lotta contro le ingiustizie e la segregazione razziale.

Ripercorriamo brevemente le tappe essenziali della vita di Madiba, altro nomignolo con cui era noto Mandela. Nato a Mvezo il 18 luglio 1918, era discendente della famiglia reale dei Thembu, una tribù di etnia Xhosa. A 22 anni, nel mezzo di un periodo estremamente difficile per i neri sudafricani, tormentati da leggi restrittive per gli spostamenti interni al Paese e da vari provvedimenti di segregazione, fu espulso dall’Università di Fort Hare per aver partecipato a una manifestazione di protesta insiema all’amico Oliver Tambo. Tornato a casa dovette affrontare un’altra ingiustizia: il suo capotribù l’aveva promesso in sposa a un’altra ragazza del suo rango, e la dote per il matrimonio era stata già pagata. Indomito, scappò a Johannesburg, dove trovò lavoro come guardiano alle Miniere della Corona.

Fu qui che il giovane Mandela si rese conto della miseria opprimente e delle condizioni disumane cui erano sottoposti i suoi compagni lavoratori. Assieme a tre compagni, fondò allora la Lega Giovanile dell’African National Congress (Anc), iniziando così il suo lungo impegno contro i mali dell’apartheid. La forza delle sue azioni e delle sue campagne irritò non poco le autorità, che lo rinchiusero più volte in carcere. Fino alla condanna definitiva all’ergastolo, emessa nel 1964. Restano alla storia le parole che pronunciò alla fine dell’arringa difensiva: “Ho nutrito l’ideale di una società libera e democratica, in cui tutte le persone vivono insieme in armonia… Questo è un ideale per cui vivo e che spero di realizzare. Ma, se è necessario, è un ideale per cui sono pronto a morire”.

Mandela visse i successivi 26 anni, fino all’11 febbraio 1990, in carcere, sottoposto a un regime di durissimo isolamento e continuando in cella, per quanto possibile, le sue battaglie. Il resto è storia recente: uscito di prigione, divenne presidente del Sudafrica (fu il primo capo di stato nero) e rafforzò il sostegno alle organizzazioni per i diritti sociali, civili ed umani. Fu premiato con svariate onoreficenze internazionali e con il premio Nobel per la pace nel 1993, assegnato “per l’opera svolta per fine non-violenta dell’era dell’apartheid e per aver gettato le basi per un nuovo Sudafrica democratico”.

Ricordiamo soprattutto l’impegno di Mandela nel campo della scienza e della salute. Il presidente abbracciò con entusiasmo il progetto del Nacosa, che si prefiggeva sei obiettivi fondamentali: educazione e prevenzione, consueling, salute, diritti umani e riforme legislative, welfare e ricerca. L’impegno di Mandela e del Nacosa era soprattutto indirizzato ad arginare le epidemie di Aids: il progetto, grazie alla guida del leader e del ministro della salute Dlamini-Zuma, si concretizzò nel piano nazionale National Security Plan: per la prima volta, le istituzioni sudafricane stabilirono chiaramente che le persone sieropositive non dovevano subire alcuna forma di discriminazione, e affrontarono la questione con un approccio multidisciplinare, concentrandosi soprattutto sulle categorie sociali più deboli e maggiormente soggette al rischio di infezione, cioè le donne e i giovani.

Purtroppo, quando Mandela si ritirò dalla scena pubblica, nel 1999, il progettò naufragò, probabilmente perché troppo ambizioso per le capacità organizzative del Sudafrica e a causa di una serie di gaffes ed errori del ministro Zuma e del nuovo governo Mbeki. Ma il contributo di Madiba continuò: nel 2004 presenziò alla XV Conferenza Internazionale sull’Aids di Bangkok e nel 2008, a sorpresa, al concerto organizzato a Londra per festeggiare i suoi novant’anni e celebrare il suo impegno nella lotta al razzismo e all’Aids. Ai lati del palco fu mostrato il numero 46.664, la sua matricola durante la lunghissima detenzione.

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