15 Ottobre 2013
Nei giorni scorsi ha avuto un certo riscontro mediatico la scelta di Google, nella sua applicazione cartografica (Google maps), di consentire la modifica dei toponimi della Sardegna. Con un rapido e capillare passaparola, che solo internet consente, moltissimi utenti hanno provveduto a modificare tutti i nomi di luogo sardi secondo la denominazione originaria. A parte qualche discussione sui dettagli, l’operazione è stata un grandissimo successo, denotando una vivacità sempre sottostimata dell’opinione pubblica e degli utenti della Rete su questioni di appartenenza e di identificazione collettiva. Quel che ne è derivato è stato tuttavia un dibattito accesissimo, animato dagli oppositori a tale decisione di Google. In molti hanno contestato la nuova toponomastica, con agomentazioni per lo più estremamente deboli, giacché rimaneva sempre intatta la possibilità di avere i nomi dei luoghi sardi nella loro forma italianizzata, e senza mai considerare che al turista e al viaggiatore poco importa di queste cose, dato che per lo più si usa l’inglese e non certo l’italiano per le ricerche su internet. Fatto sta che ieri Google ha fatto marcia indietro (probabilmente anche per intervento a livello governativo, se è vero che una fonte ministeriale ha autorevolmente ricordato che la lingua ufficiale dei sardi è l’italiano) e ha cancellato tutti i toponimi in sardo e nelle altre lingue di Sardegna (ossia quelli veri) dalle sue mappe dell’isola, ripristinando quelli italianizzati.
Contemporaneamente si è acceso un altro dibattito, a proposito di un’intervista al geologo Mario Tozzi rilasciata al sito di informazione on line SardiniaPost. Tozzi – noto soprattutto come conduttore televisivo – tra altre cose più o meno interessanti, osserva che tutto sommato ai sardi converrebbe giocare di più sull’applicazione alla Sardegna del mito di Atlantide, sfruttandolo in chiave di promozione turistica della nostra storia. Come se esistesse un sistema turistico, in Sardegna, e come se esistesse una diffusa conoscenza storica. Ma Tozzi, ignaro di tutto ciò, si lascia andare a considerazioni se vogliamo anche abbastanza scontate. Niente di che, dunque, ma col torto – imperdonabile, sembrerebbe – di tirare in ballo en passant la faccenda di Atlantide. Apriti cielo! Il cosiddetto popolo della Rete (elemento mitologico, questo, che meriterebbe a sua volta qualche approfondimento) ha subito innescato un’accesa discussione sulla pertinenza e sulla legittimità di tali dichiarazioni. Qualche cattedratico ci ha messo del suo, negando valore alla tesi a cui accennava Tozzi e rispolverando una vecchia polemica contro colui che ne era stato, qualche anno fa, il propugnatore, il giornalista Sergio Frau. Frau una decina d’anni or sono aveva pubblicato un libro di un certo successo a proposito della reale ubicazione delle Colonne d’Ercole nell’età antica, prima del loro ipotizzato riposizionamento sullo stretto di Gibilterra in età ellenistica. Una tesi questa piuttosto condivisa, in realtà, dalla comunità scientifica. Tuttavia, come corollario di tale ricostruzione, Frau adombrava ulteriori interpretazioni di vari miti mediterranei, tra cui quello platonico di Atlantide. Essendo citata come una grande isola nel mare al di là delle Colonne d’Ercole, questa località misteriosa era sempre stata cercata fuori dal Mediterraneo. Ma se le Colonne d’Ercole si spostano, per epoche più antiche del IV secolo a.C., al Canale di Sicilia, ecco che la grande isola al di là di esse si può identificare senza tanti dubbi con la Sardegna. E in particolare con la Sardegna nuragica (che in effetti era una vera potenza nel corso dell’Età del bronzo, in quell’area). Questa tesi era stata rifiutata e persino ridicolizzata da tutta l’accademia sarda, compattamente.
Quanto precede si lega con il nodo irrisolto della nostra conoscenza storica. Lo stato dell’arte, riguardo l’archeologia e la storiografia sarda, è ben lungi dall’essere soddisfacente. Le lacune dell’immaginario collettivo sono riempite con grande facilità da ricostruzioni fantasiose, a volte palesemente mal fondate, a volte solo meritevoli di approfondimenti e di un vaglio scientifico adeguato, ma sempre rifiutate dai depositari del “potere” di validazione, ossia le gerarchie accademiche. Che a loro volta non brillano purtroppo per senso di responsabilità e per generosità divulgativa. Per lo più spuntano fuori quando devono ridimensionare tesi che mettono in discussione l’apparato di ricostruzioni su cui si basa la loro carriera. Non è un bel vedere, diciamocelo francamente.
Metto insieme la questione di Google maps in sardo e questo dibattito giornalistico-internettiano sull’antichità sarda perché mi pare di cogliere un nesso tra le due vicende. Per farlo emergere meglio cito un altro testo, un articolo, tratto da un blog diretto dall’archeologo Pierluigi Montalbano, in cui si rispolvera la vexata quaestio dei Shardana e della loro identificazione con gli antichi sardi. È un articolo che vorrebbe fare il punto della situazione, senza prendere posizione, giusto per riassumerne gli elementi salienti. Si citano fonti, si riassumono tesi, si offrono dati. Alla fine – escludendo le posizioni che non considerano plausibile una correlazione tra Shardana e Sardegna – le due ipotesi che rimangono sul campo sono: a) che questo fantomatico popolo fosse originario dell’area anatolica o siriana e da lì, tra XIV e XI secolo, sia migrato verso la Sardegna, prendendone possesso e dandole il suo nome; b) che si trattasse di una popolazione sarda coinvolta nei traffici e nei conflitti dell’Età del bronzo finale, una popolazione dedita alla pirateria e al mestiere delle armi, come mercenari al soldo di varie potenze (o dei Micenei o degli Egizi o di entrambi). Quel che sorprendentemente manca, nell’articolo in questione, è qualsiasi menzione del fatto che la Sardegna di quell’epoca non fosse un posto privo di civiltà. La Sardegna dell’Età del bronzo non era abitata da genti barbare, facili da sottomettere (come vorrebbe la prima tesi citata sugli Shardana), ovvero dedite ad attività tributarie verso le vere potenze del periodo (come vuole la seconda tesi). In entrambi i casi si omette di considerare che l’isola stessa aveva allora una propria civiltà evoluta. Estremamente evoluta. Si possono anche lasciar perdere le ricostruzioni fantasiose, le allusioni al mito di Atlantide, o altre interpretazioni romanzesche, ma il dato indubitabile è che la civiltà dei nuraghi c’è stata e non era una faccenda di pastori e agricoltori litigiosi, chiusi su se stessi e isolati dal mondo. Non è chiaro perché questa circostanza così dirompente sia omessa con tanta facilità.
Cito questo articolo, perché consente di evidenziare il nodo che sta alla base tanto della questione dei toponimi sardi, quanto di quella della conoscenza, della divulgazione e della valorizzazione della nostra storia. Il nodo è la persistente negazione di una soggettività collettiva dei sardi. Noi non possiamo aspirare a essere un soggetto “parlante”, un personaggio attivo della storia dei popoli europei e mediterranei. Quand’anche esistessimo, la nostra sarebbe un’esistenza di second’ordine, subalterna, tributaria appunto. Così è facile che le proteste di alcuni (pochi o molti non importa) a proposito della sacrosanta ridenominazione dei nostri luoghi con i loro nomi veri siano accolte a dispetto di un diritto insopprimibile e inalienabile (cioè quello di impiegare la propria lingua in ogni sede e per tutti gli usi possibili).
E succede inevitabilmente che una discussione fondamentale sulla valorizzazione della nostra ricca stratificazione storica e culturale venga deviata verso la sterile polemica, non senza il condimento degli anatemi accademici, a difesa di un fortilizio intellettuale sempre meno solido e ben munito, ma non per questo meno arrogante. E sempre in nome della nostra pretesa impalpabilità storica, della nostra inesistenza come soggetto collettivo dotato di una propria ragion d’essere e di una propria voce.
Il problema, insomma, non è il mito di Atlantide applicato alla Sardegna. È ovvio che non si possa fare alcuna concessione a tesi avventurose e fantascientifiche se alla base non c’è un apparato di conoscenze che sia solido e condiviso, e non solo a livello locale. Il vero problema non è che la Sardegna non sappia usare a suo vantaggio un mito molto conosciuto nel mondo, ma che la sua storia nel mondo sia pressoché ignorata. Della civiltà nuragica (o della civiltà giudicale, o persino di fatti ben pià recenti, come la Rivoluzione sarda) nessuno ne sa niente. Perché in tutto il pianeta si sa di Stonehenge (falso storico clamoroso, per altro), o delle piramidi egizie, o dei Maya e non si sa nulla di Su Romanzesu o del nuraghe Arrubiu? Perché conosciamo le repubbliche marinare italiche o la Guerra dei cent’anni e non sappiamo nulla dell’epopea giudicale e della guerra tra Arborea e Aragona? Eppure si tratta spesso di processi ed eventi di respiro ben più che locale, ben inseriti dentro la Storia europea e mediterranea.
La pecca dobbiamo cercarla in noi. Non possiamo fuggire la responsabilità di conoscere la nostra storia e di narrarla dal nostro punto di vista. La responsabilità del nostro sguardo sul mondo non è solo un diritto, ma è anche un dovere che abbiamo in quanto collettività storica di così lungo corso. Gli accademici e gli intellettuali sardi, oltre a sbertucciare l’ennesimo forestiero che viene ad insegnarci dove abitiamo, potrebbero convogliare almeno una parte di queste energie intellettive nello studio e nella divulgazione delle nostre vicende, dei documenti e dei lasciti materiali e culturali che ne sono testimoni, per restituirci quella soggettività che oggi è così facile negare, anche quando esprima esigenze fondamentali, che nessuno dovrebbe sognarsi di mettere in discussione. Non è un fatto di stampo nazionalista o etnocentrico. È la semplice esigenza di restituirci alla storia dell’umanità per quel che vi abbiamo rappresentato, e di restituire a noi, come collettività storica, un senso di appartenenza che non sia solo folkloristico o pittoresco, impostoci in nome di rapporti di potere diseguali di cui siamo l’elemento debole. È un fatto politico, dunque, ed anche culturale certo, e persino economico. Non è uno dei compiti meno significativi che ci toccano, in questa fase storica decisiva.
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