lunedì 23 dicembre 2013

BRUXELLES – L’accordo sull’Unione bancaria raggiunto al livello dei governi europei rischia di non superare lo scoglio del Parlamento europeo, che vede nel sistema progettato grosse lacune che rischiano di annacquare gli stessi principi che hanno richiesto la nascita di una maggiore collaborazione per evitare nuove crisi finanziarie.

A dirlo è niente di meno che il presidente dell’europarlamento, Martin Schulz del Partito Socialista Europeo, secondo il quale più un sistema è lento e inefficiente, più costoso risulterà per tutti. Come già espresso da molti osservatori anche secondo il presidente del Parlamento europeo, nonché candidato del Partito Socialista Europeo alla guida della prossima Commissione Europea, l’Unione bancaria su cui si è giunti ad un faticoso accordo non rappresenterebbe una vera unione, bensì una sommatoria che non elimina le problematiche che intende risolvere.

C’è innanzitutto una questione relativa ai tempi: le banche europee potrebbero ritornare in una situazione di difficoltà già nel prossimo anno, quando i risultati del asset quality review della Banca centrale europea renderanno noto il numero delle banche che necessitano di rafforzare il proprio capitale nonché il denaro effettivamente necessario per mettere al sicuro le 130 banche esaminate. La cifra potrebbe arrivare a 600 miliardi nel caso peggiore, secondo il think tank Bruegel, ed in tal caso è assolutamente certo che ci saranno banche da salvare.

Il meccanismo a ciò preposto, tuttavia, entrerà in funzione solo tra molti anni (si parla del 2025), per questo l’Unione Europea rischia di proseguire la sua striscia negativa che già ha portato alla perdita della tripla A secondo l’agenzia di rating Standard and Poor’s. Per evidenziare la traballante struttura dell’accordo basti ricordare che il fondo di risoluzione verrà alimentato in 10 anni fino a raggiungere la ridicola cifra di 55 miliardi di euro, quando la crisi degli ultimi anni ha chiesto ai governi di investire 4500 miliardi per puntellare i propri sistemi finanziari.

È pur vero che l’intenzione dei ministri delle Finanze dell’Unione è far pagare in primo luogo, ovvero fino all’8 per cento degli attivi, chi ha investito nella banca in dissesto, ovvero azionisti, obbligazionisti e depositanti oltre la soglia assicurata di 100mila euro; un ulteriore 5 per cento di perdita in rapporto agli attivi verrà poi coperto dal suddetto un fondo di risoluzione e solo in terza stanza i governi potranno intervenire per aiutare la banca, ammesso e non concesso che l’Unione Europea, attraverso un nuovo organo comunitario a ciò preposto dia il via libera al progetto.

Una simile struttura è evidentemente inefficiente per intervenire in modo tempestivo, se si considera che grandi banche possono fallire (e sono fallite) anche nel giro di pochi giorni, gettando i mercati nel caos e costringendo i governi ad utilizzare i soldi dei contribuenti per sopperire alle mancanze dei grandi finanzieri, ma pure ai ritardi in sede europea quando l’Unione bancaria entrerà pienamente in vigore (ma anche nel periodo di transizione). Insomma, il nuovo sistema potrebbe impiegare settimane, se non mesi, per puntellare il crollo di una banca che potrebbe avvenire nel giro di una notte, facendo danni ai cittadini mentre l’Europa discute (e litiga) su come salvare quello che nel frattempo è diventato un rudere di banca. Un po’ come intervenire sui rischio idrogeologico dopo che un’alluvione si è portata via mezza Sardegna.

Forse sarebbe stato più semplice seguire la strada americana, dove si è ritornati ad una forma di separazione fra le banche che raccolgono risparmi privati e banche dedite ad investimenti finanziari più rischiosi (la cosiddetta Volcker Rule), abbassando così il rischio di moral hazard che fino al 2008 vedeva le banche investire in pratica qualsiasi risorsa passasse fra le loro mani in attività rischiose, perché tanto poi sarebbe intervenuto il contribuente a correggere gli inevitabili effetti negativi della loro pessima gestione, mentre i guadagni sarebbero stati tutti privati.

Impedendo alle banche commerciali di investire i depositi in attività rischiose il governo statunitense non dovrà intervenire massicciamente per salvare la fiducia nel sistema finanziario, lasciando semplicemente fallire gli istituti finanziari con una gestione meno virtuosa, senza che questo abbia un forte impatto negativo sull’intero sistema. In altre parole resta la garanzia sui depositi, mentre viene meno (almeno in parte) quella sugli investimenti speculativi.

Si tratta di una strada completamente diversa rispetto ai bizantinismi europei, dove tirare automaticamente in ballo i creditori e rendere meno forte l’assicurazione sui loro investimenti rischia di rendere ancora più complicato il reperimento di capitali da parte degli istituti finanziari, poiché i possessori di obbligazioni ed i depositanti non assicurati vorranno remunerazioni maggiori conseguenti al maggior rischio che dovranno sopportare.

Il maggior costo della raccolta bancaria finirà inevitabilmente per ricadere sul costo del credito, visto che le banche, per far fronte a tali maggiori costi, chiederanno maggiori interessi a famiglie ed imprese sui prestiti che esse richiederanno, approfondendo così la spirale della credit crunch e apportando le attuali speranze di ripresa dell’economia.

C’è un motivo se gli Stati Uniti, nonostante tutto, riescano ad assaggiare una ripresa economica che sembra guadagnare momentum, mentre gli stati che compongono la cosiddetta Unione Europea vedono ogni giorno nuovi motivi di preoccupazione, che però i governi, pur di salvaguardare il proprio orticello, fingono di ignorare affidandosi ad una fiducia sempre più sbiadita invece che cercare di far funzionare un organismo sempre più barcollante. L’economia europea, banche comprese, sono molto più integrate della politica continentale, ed è questo il difetto fondamentale che la peggior classe dirigente al potere in Europa non sembra voler correggere.

Articolo scritto da Giovanni De Mizio per ibtimes.com

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