13 Dicembre 2013

Marco Santopadre

La mobilitazione sociale e popolare degli ultimi tre anni – inedita in un paese relativamente tranquillo sul fronte delle rivendicazioni nazionali come la Catalogna – ha ottenuto ieri una prima importante vittoria. Dopo tre ore di serrato confronto, i rappresentanti di quattro importanti formazioni politiche catalaniste di diverso orientamento ideologico hanno convenuto sulla formula da adottare per chiamare gli abitanti del ‘Principato’ alle urne. Accordo raggiunto anche sulla data in cui si dovrebbe celebrare il referendum sull’autodeterminazione: il 9 novembre dell’anno prossimo. Neanche due mesi dopo un analogo referendum già fissato in Scozia e che potrebbe separare – anche se non del tutto – Edimburgo da Londra. Non era scontato che il variegato fronte sovranista raggiungesse la quadra. Perché le differenze tra i quattri partiti promotori dell’iniziativa non sono poche: si va dai regionalisti di CiU, capitanati dal liberista governatore della regione autonoma, Artur Mas, ai liberalsocialisti di Erc (Sinistra Repubblicana), agli ecosocialisti di Icv (Iniziativa per la Catalogna Verde, branca locale ma assai autonoma di IU) e gli indipendentisti radicali della Cup (Candidatura di Unità Popolare, sinistra antagonista). I quattro leader – Artur Mas, Oriol Junqueras, Joan Herrera e David Fernandez – hanno alla fine partorito una soluzione di compromesso, e quindi se la consultazione popolare si dovesse tenere – il condizionale è d’obbligo – sulla scheda gli elettori catalani troveranno due quesiti: “Vuole lei che la Catalogna sia uno Stato?”. E poi, in caso affermativo: “Vuole lei che la Catalogna sia uno Stato indipendente?”. Gli indipendentisti che spingevano per una domanda secca hanno dovuto accettare di fare un passo indietro per convincere CiU ad essere della partita. Il che potrebbe comunque portare a una spaccatura nella coalizione storica della borghesia regionalista catalana con gli autonomisti di Unione Democratica di Catalogna che soffrono la scelta indipendentista di Convergenza Democratica e continuano a pensare che le classi dominanti della regione debbano continuare ad esercitare un ruolo di mediazione tra le spinte nazionaliste spagnole e quelle sovraniste catalane, ottenendo vantaggi politici e soprattutto economici su entrambi i fronti. Ma la crisi economica che sta investendo la Spagna ha determinato una rapida e generalizzata crisi di legittimità per le istituzioni centrali rinvigorendo le spinte indipendentiste e convincendo anche una parte della borghesia catalana e dei ceti medi a gettarsi nella mischia per non perdere ulteriori consensi (Mas nei sondaggi cala a picco così come le intenzioni di voto di Ciu, a scapito di Erc e addirittura della Cup). I segnali degli ultimi anni sono stati inequivocabili: a milioni sono scesi in piazza negli ultimi tre anni durante la celebrazione catalanista dell’11 settembre, e finora ben 160 municipi del Principato si sono già dichiarati “territorio catalano libero e sovrano”.

Il doppio quesito lascia comunque aperta la strada di una ‘semi-indipendenza’, simile tra l’altro al modello proposto dal Partito nazionale scozzese: uno ‘stato’ ma sotto la copertura della Spagna per quanto riguarda la difesa, la politica estera e molte questioni di politica finanziaria. E’ chiaro l’intento da parte della borghesia catalana di lasciare aperta la porta di una contrattazione con gli apparati dello Stato Spagnolo – più privilegi fiscali e politici in cambio di uno stop all’indipendenza totale – che però per ora Madrid non sembra raccogliere. Con il solito linguaggio minaccioso tutti gli esponenti di punta del governo del Partito Popolare hanno non solo affermato che il referendum per la legge statale è illegittimo e illegale e quindi non si potrà tenere, ma che faranno tutto quanto in loro potere per impedirlo. Da questo punto di vista la Costituzione frutto dell’autoriforma del regime franchista in nuove vesti più consone all’ingresso della Spagna nell’incipiente Unione Europea lasciano ampio margine agli apparati dello Stato e alla Forze Armate per impedire la ‘secessione’ e intervenire anche con la forza contro le istituzioni e il governo catalano. La Costituzione della Spagna stabilisce che un referendum possa essere indetto soltanto dal governo centrale. Salta agli occhi la differenza di atteggiamento tra Londra – che ha accettato senza particolari conflitti la celebrazione a settembre del 2014 di un referendum per l’autodeterminazione della Scozia – e Madrid. D’altronde anni fa fu un governo conservatore a iniziare i colloqui che portarono alla fine della lotta armata degli indipendentisti irlandesi in Ulster mentre neanche un “socialista” come Zapatero ha voluto e potuto portare a casa un risultato simile con l’insorgenza basca.

Se il PP fa la voce grossa e mostra i muscoli contro i catalani e i baschi – anche perché alla sua destra cresce pericolosamente un movimento reazionario di massa che trae linfa proprio dall’indurimento della guerra ideologica con i vari ‘secessionismi’ – le opposizioni socialiste (Psoe) e liberal-nazionaliste (UpyD) non sono da meno, ed anche la sinistra unita (IU) non riesce a prendere una posizione troppo diversa dal fronte sciovinista spagnolo.
Secondo i sondaggi più recenti i due terzi degli abitanti della Catalogna – immigrati compresi – sono a favore della celebrazione del referendum sull’autodeterminazione, e più della metà voterebbero si al distacco da Madrid. Dall’altra parte il numero di contrari non è molto più alto dell’insieme degli indecisi, e quindi le minacce e la chiusura a riccio da parte dello Stato Spagnolo potrebbero generare una reazione indipendentista anche in settori dell’opinione pubblica non particolarmente convinti dell’opportunità di votare ‘si’. Madrid per ora cerca e ottiene l’appoggio della Nato e delle istituzioni dell’Unione Europea: da Bruxelles vari esponenti delle due entità hanno avvertito i catalani che Barcellona si separasse resterebbe automaticamente fuori dall’UE e dall’Alleanza Atlantica. Certamente un tentativo di spaventare i settori moderati e conservatori del fronte indipendentista. Ma in tempi di crisi nera e di caduta della credibilità del progetto integrazionista europeo per alcuni settori quella che a certi può suonare come un salto nel vuoto potrebbe invece apparire una via d’uscita appetibile

tratto da : (clicca qui)

 

2013.12.13 – Il no di Madrid all’indipendenza catalana

Posted by Presidenza on 13 Dicembre 2013
Posted in articoli 

Un concerto allo stadio Nou Campdi Barcellona il 29 giugno 2013 per sostenere il referendum di indipendenza dalla Spagna. (Gustau Nacarino, Reuters/Contrasto)

Il 12 dicembre in Catalogna i partiti indipendentisti hanno fissato la data per il referendum sull’indipendenza della Catalogna dalla Spagna, ma il governo spagnolo ha annunciato che bloccherà il referendum che ha definito “incostituzionale”.

La consultazione dovrebbe tenersi il 9 novembre del 2014, secondo quanto annunciato dai partiti catalani Convergencia i uniò (Ciu), partito catalano nazionalista moderato attualmente al governo della regione autonoma, Esquerra republicana de Catalunya (Erc), il partito indipendentista di sinistra che appoggia dall’esterno il governo locale e Iniciativa per Catalunya-verds (Icv), federazione verde e comunista catalana.

Il referendum sarà articolato in due quesiti. Il primo chiede ai cittadini: “Volete che la Catalogna sia uno stato?”, mentre il secondo precisa: “Volete che la Catalogna sia uno stato indipendente?”. Alcuni partiti, infatti, sono favorevoli a uno stato all’interno di una confederazione spagnola, mentre altri chiedono di diventare stato sovrano e indipendente.

Il 12 dicembre il governo spagnolo ha reagito dicendo che il referendum sull’indipendenza della Catalogna “non avrà luogo”. “Il voto non si terrà e non si terrà perché la nostra costituzione non autorizza nessuna comunità autonoma a sottoporre a un voto o a un referendum le questioni relative alla sovranità nazionale”, ha dichiarato il ministro della giustizia spagnolo Alberto Ruiz-Gallardón.

Tutti in piazza. Secondo i sondaggi sono favorevoli al referendum più del 75 per cento dei 7,5 milioni di catalani. La spinta autonomista, molto diffusa in una comunità con una forte identità culturale e linguistica, si è radicalizzata negli ultimi anni. Nel 2012 a Barcellona l’Assemblea nacional Catalana (Anc), una rete di associazioni e partiti per l’indipendeza, ha portato in piazza a Barcellona almeno un milione di persone per la festa nazionale catalana dell’11 settembre. L’11 settembre si ricorda l’11 settembre del 1714, quando Barcellona, dopo un lungo assedio delle truppe borboniche, fu occupata militarmente dai Borboni per più di un secolo e mezzo e perse tutte le sue istituzioni locali.

L’11 settembre 2013 l’Anc ha organizzato una catena umana di quattrocento chilometri, che ha attraversato tutta la Catalogna, a cui hanno partecipato centinaia di migliaia di catalani. Secondo i sondaggi, circa il 52 per cento dei catalani è favorevole all’indipendenza, il 10 o 15 per cento in più rispetto a qualche anno fa.

Una delle rivendicazioni dei catalani, forse la principale, è quella di ottenere un trattamento fiscale più favorevole. In Catalogna si produce un quarto del pil spagnolo e la regione ha grande autonomia di spesa, mentre non ha potere di riscossione fiscale. Con la crisi economica la regione ha dovuto tagliare la spesa pubblica – soprattutto sanità e istruzione – ma continua a trasferire nello stato centrale più di quello che spende. Secondo gli indipendentisti la Catalogna versa nelle casse di Madrid 16 miliardi di euro in più rispetto a quelli che riceve.

Un altro motivo di risentimento verso Madrid è stata la decisione, nel 201o, del tribunale costituzionale spagnolo di dichiarare incostituzionali numerosi articoli dello Statuto autonomico della Catalogna. Lo statuto era entrato in vigore nel 2006, dopo l’approvazione del parlamento catalano e di quello spagnolo ed era stato legittimato anche da un referendum popolare in Catalogna.

La Catalogna ha già proclamato l’indipendenza due volte nel corso del novecento: nel 1931 e nel 1934. Nel 1931 fu approvato lo Statuto di autonomia regionale, mentre nel 1934 la spinta indipendentista fu repressa militarmente da Madrid.

tratto da : (clicca qui)

di Corrado Belli

Un piccolo stato come la Grecia che ha solamente il 2,5 % dell’Economia in Europa è al centro della scena politica mondiale, quello che hanno mostrato a Cannes i capi governo europei è un totale Caos, da 4 anni discutono su come evitare la crisi tra banche -finanza e politica in tutto lo spettro mondiale,ogni loro seduta che fanno (G8- G20 e sette e mezzo) annunciano di aver trovato la soluzione per risolvere tutti i problemi riguardanti la crisi, ma diventa sempre peggio, non è coincidenza e nemmeno un fallimento, la cosa è voluta di proposito, una sceneggiatura come al Teatro e noi facciamo da spettatori ,salvare l’euro non è quello che vogliono ,al contrario è la distruzione dell’Euro,è creare l’ordine causando il Caos e questo è il loro grande obiettivo. 

Se ricordo bene nel 2009 durante il meeting dei Bilderberg in Grecia ed esattamente a Vouliagmeni avevo scritto che non era stata una coincidenza che i Bilderberg si riunivano proprio in Grecia, Papandreou era l’ospitante delle stelle Elitarie che avevano deciso di usare la Grecia come Stato europeo che doveva fare da esca , sappiamo che quando l’Elite trova la soluzione trova anche l’apposito problema che fa a caso su quella soluzione, cioè portare la Grecia di proposito quasi alla bancarotta, con questo sistema possono far cambiare tutto il sistema sociale ed economico in uno stato e senza che la popolazione faccia una grande resistenza, questo è appunto successo in Grecia, la Grecia è stata scelta per far scoppiare una crisi di notevoli dimensioni al fine di far scoppiare una vera e propria crisi in tutta l’europa-

La Goldman Sachs che è la Banca dei Bilderberg ha creato tutte le opzioni per una crisi e senza uscita per la Grecia avendo fatto di tutto per far entrare la Grecia nei parametri per la sua entrata nell’EURO,poi hanno fatto di tutto che il governo greco si indebitasse e infine alla bancarotta, hanno anche scommesso sulla bancarotta della Grecia che ha fruttato centinaia se non migliaia di milioni di Euro alla Goldman Sachs, non dimentichiamo che l’Unione Europea e l’Euro furono fondati dietro decisione dei Bilderberg nel 1955 il suo primo “Caimano” Etienne Davignon disse dopo anni che il tutto è stato deciso dai Bilderberg, i Politici di ogni singolo stato della UE hanno solo il dovere di dichiarare la fondazione della UE e dare le informazioni ai media in modo che questi si assumono la responsabilità di disinformare i cittadini sulla costruzione di una super nazione che in fin dei conti è una UNIONE SINTETICA e senza alcun valore Democratico e Sociale, questo è successo dopo decenni di disinformazione sulla fondazione della UE , adeso sappiamo che è una creatura Dittatoriale dove i cittadini devono solamente nascere e lavorare per soddisfare le perverse voglie di una Elite di Criminali ..fin che morte arriva.

Perché la Grecia è stata scelta come prima vittima ? le motivazioni sono diverse : primo , l’eminenza grigia dei Bilderberg denominato Henry Kissinger odia a morte i greci, lui stesso ha sempre ribadito che l’orgoglio del popolo greco deve essere massacrato , questo lo ha detto a Washington durante una conferenza di imprenditori internazionali nel mese di Settembre del 1974 e ribadito dopo la conferenza dei Bilderberg in Grecia, sottolineando che il popolo greco è troppo Anarchico e quindi pericoloso per la fondazione del NWO, “The Sciacall” sa bene che la cultura dei popoli Europei ha molto da condividere dalla cultura greca che fu poi acquisita dai romani che la tramandarono in tutta l’europa durante le loro conquiste di territorii fino all’Inghilterra, lo stesso Hitler si ornava nelle sue manifestazioni di cultura greca con maestose costruzioni e costumi che i suoi soldati dovevano indossare durante le sfilate , Kissinger e Rockefeller sono gli autori del piano distruttivo dell’Europa, i Rothschild stanno dando gli ultimi colpi ai pilastri che fino ad oggi la sostengono , secondo: come già specificato la Grecia è il simbolo della cultura Europea, Filosofia e Democrazia che per millenni è sono state la pietra miliare per i governi Europei, ed è per questo che la Grecia deve essere distrutta fino alla radice , terzo: l’Economia della Grecia è facile da distruggere e non è rilevante come la Cultura, non è mai stata una concorrenza ,i suoi prodotti e i servizi sociali in confronto agli altri stati della UE sono troppo cari ..secondo la casta dell’Elite,- L’elite sta usando la bancarotta della Grecia per convincere tutta la zona Euro che se uno stato non può essere salvato c’è il pericolo che la malattia si diffonda in tutta l’europa trascinandola nel baratro economico, è chiaro che con questo sistema vogliono distruggere la Grecia per salvare le Banche mettendo le mani sempre più profondamente nelle tasche dei cittadini, loro stessi hanno creato questo problema, qualsiasi esperto di Economia ha sempre detto che la creazione dell’Euro avrebbe portato l’Europa al collasso sociale ed economico e specialmente nel Sud Europa… Italia compresa seguite da Spagna, Portogallo e con probabilità anche la Francia come canditati alla bancarotta, qui è chiaro come la crisi viene alimentata sempre di più con la promessa che la soluzione sia vicina , i cittadini devono essere diretti verso l’insicurezza ,demoralizzati e impauriti fino a che accettano le condizioni che vuole l’Elite, Barros e Van Rompuy l’hanno detto chiaramente , ogni Stato della UE deve consegnare la sua sovranità e Finanza a Brussel che la vuole centralizzare a modo suo, un governo centralizzato che controlla tutte le economie di ogni singolo stato che consegnano le loro risorse e finanze nelle mani di un gruppo di criminali /mafiosi e succhia sangue, il capo criminali che dovrebbe gestire tutte le Banche in europa è Ackermann che vuole a tutti i costi un commissario per le finanze che assuma il controllo e potere sulle politiche finanziarie di ogni singolo stato UE, il tempo scorre e non è ammissibile lasciare in mano ai politici i controlli del proprio stato, ciò è un DIKTAT che và fuori da ogni regola descritta nel Trattato di Lisbona, “..Dittatura pura che viene applicata anche con la violenza e aggressione militare come di già ha fatto Sarkozy con la Merkel e Berlusconi” . ..ciò vuol anche dire che ogni singolo stato non esisterebbe più , si creerebbero delle piccole regioni (come vuole la Lega) che verrebbero gestite da Commissari che nessuno ha eletto , i Parlamenti Nazionali non hanno più nulla da dire (già lo stanno applicando), per controllare tutto questo c’è bisogno di un esercito e di un apparato di Polizia Europea (già costituita con la Eurogendfor) che mantiene ordine a tutti i costi, l’Elite della finanza che è sotto controllo dei Rothschild vuole un Superstato “la EUDSSR” ,costruita non Democraticamente ma che abbia le sembianze Democratiche= Dittatura, il popolo dovrà accettare dopo la martellante Propaganda che i media avranno fatto per condizionarlo e prepararlo all’anestesia totale, solo allora le Banche e l’Industria potranno fare quello che vogliono, ..e cosa vogliono fare? Dirigere i capitali e le somme di denaro dal basso verso l’alto come di già è in atto, impoverire sempre di più i cittadini fino a renderli schiavi e farli lavorare fino alla fine dei loro giorni senza pausa, indirizzarli al consumismo sfrenato, controllati in ogni movimento e discussione, il tutto per la nostra salute e sicurezza?????

Ma tutto questo non basta, per risolvere i problemi del mondo ci vuole un Governo Mondiale e quindi deve essere fondata una Unione Mondiale che potrà risolvere tutti i problemi esistenti , per raggiungere questo obiettivo è chiaro che anche tutti gli altri stati /nazioni e continenti debbano essere messi sotto controllo di questa Elite assatanata di potere , ciò comporta un risico molto più grande di quello Europeo, conclusione:

prepariamoci a un evento Apocalittico di immaginabili dimensioni, quello che abbiamo visto con l’aggressione alla Libia e altri piccoli stati Africani è un Antipasto con 4 olive e qualche bruschetta, – Solo se i Popoli saranno in grado di acquisire quella coscienza di autodeterminazione e volontà di Democrazia vera e propria abbandonando l’euforia del consumismo , mettendo da parte l’egoismo che hanno costruito con passare degli anni e decenni , riscoprendo il sociale e la famiglia,si potrà sconfiggere questa Elite di Criminali e assetati di sangue, prima cosa da sconfiggere e da eliminare sono I Mass Media dato che sono loro a lavare il cervello dei cittadini dirigendoli verso una via senza uscita.

Corrado Belli

Fonte: http://www.stampalibera.com/?p=34366

tratto da : (clicca qui)

2013.12.12 – La storia, la lingua e la soggettività negata

Posted by Presidenza on 12 Dicembre 2013
Posted in articoli 

15 Ottobre 2013

Nei giorni scorsi ha avuto un certo riscontro mediatico la scelta di Google, nella sua applicazione cartografica (Google maps), di consentire la modifica dei toponimi della Sardegna. Con un rapido e capillare passaparola, che solo internet consente, moltissimi utenti hanno provveduto a modificare tutti i nomi di luogo sardi secondo la denominazione originaria. A parte qualche discussione sui dettagli, l’operazione è stata un grandissimo successo, denotando una vivacità sempre sottostimata dell’opinione pubblica e degli utenti della Rete su questioni di appartenenza e di identificazione collettiva. Quel che ne è derivato è stato tuttavia un dibattito accesissimo, animato dagli oppositori a tale decisione di Google. In molti hanno contestato la nuova toponomastica, con agomentazioni per lo più estremamente deboli, giacché rimaneva sempre intatta la possibilità di avere i nomi dei luoghi sardi nella loro forma italianizzata, e senza mai considerare che al turista e al viaggiatore poco importa di queste cose, dato che per lo più si usa l’inglese e non certo l’italiano per le ricerche su internet. Fatto sta che ieri Google ha fatto marcia indietro (probabilmente anche per intervento a livello governativo, se è vero che una fonte ministeriale ha autorevolmente ricordato che la lingua ufficiale dei sardi è l’italiano) e ha cancellato tutti i toponimi in sardo e nelle altre lingue di Sardegna (ossia quelli veri) dalle sue mappe dell’isola, ripristinando quelli italianizzati.

Contemporaneamente si è acceso un altro dibattito, a proposito di un’intervista al geologo Mario Tozzi rilasciata al sito di informazione on line SardiniaPost. Tozzi – noto soprattutto come conduttore televisivo – tra altre cose più o meno interessanti, osserva che tutto sommato ai sardi converrebbe giocare di più sull’applicazione alla Sardegna del mito di Atlantide, sfruttandolo in chiave di promozione turistica della nostra storia. Come se esistesse un sistema turistico, in Sardegna, e come se esistesse una diffusa conoscenza storica. Ma Tozzi, ignaro di tutto ciò, si lascia andare a considerazioni se vogliamo anche abbastanza scontate. Niente di che, dunque, ma col torto – imperdonabile, sembrerebbe – di tirare in ballo en passant la faccenda di Atlantide. Apriti cielo! Il cosiddetto popolo della Rete (elemento mitologico, questo, che meriterebbe a sua volta qualche approfondimento) ha subito innescato un’accesa discussione sulla pertinenza e sulla legittimità di tali dichiarazioni. Qualche cattedratico ci ha messo del suo, negando valore alla tesi a cui accennava Tozzi e rispolverando una vecchia polemica contro colui che ne era stato, qualche anno fa, il propugnatore, il giornalista Sergio Frau. Frau una decina d’anni or sono aveva pubblicato un libro di un certo successo a proposito della reale ubicazione delle Colonne d’Ercole nell’età antica, prima del loro ipotizzato riposizionamento sullo stretto di Gibilterra in età ellenistica. Una tesi questa piuttosto condivisa, in realtà, dalla comunità scientifica. Tuttavia, come corollario di tale ricostruzione, Frau adombrava ulteriori interpretazioni di vari miti mediterranei, tra cui quello platonico di Atlantide. Essendo citata come una grande isola nel mare al di là delle Colonne d’Ercole, questa località misteriosa era sempre stata cercata fuori dal Mediterraneo. Ma se le Colonne d’Ercole si spostano, per epoche più antiche del IV secolo a.C., al Canale di Sicilia, ecco che la grande isola al di là di esse si può identificare senza tanti dubbi con la Sardegna. E in particolare con la Sardegna nuragica (che in effetti era una vera potenza nel corso dell’Età del bronzo, in quell’area). Questa tesi era stata rifiutata e persino ridicolizzata da tutta l’accademia sarda, compattamente.

Quanto precede si lega con il nodo irrisolto della nostra conoscenza storica. Lo stato dell’arte, riguardo l’archeologia e la storiografia sarda, è ben lungi dall’essere soddisfacente. Le lacune dell’immaginario collettivo sono riempite con grande facilità da ricostruzioni fantasiose, a volte palesemente mal fondate, a volte solo meritevoli di approfondimenti e di un vaglio scientifico adeguato, ma sempre rifiutate dai depositari del “potere” di validazione, ossia le gerarchie accademiche. Che a loro volta non brillano purtroppo per senso di responsabilità e per generosità divulgativa. Per lo più spuntano fuori quando devono ridimensionare tesi che mettono in discussione l’apparato di ricostruzioni su cui si basa la loro carriera. Non è un bel vedere, diciamocelo francamente.

Metto insieme la questione di Google maps in sardo e questo dibattito giornalistico-internettiano sull’antichità sarda perché mi pare di cogliere un nesso tra le due vicende. Per farlo emergere meglio cito un altro testo, un articolo, tratto da un blog diretto dall’archeologo Pierluigi Montalbano, in cui si rispolvera la vexata quaestio dei Shardana e della loro identificazione con gli antichi sardi. È un articolo che vorrebbe fare il punto della situazione, senza prendere posizione, giusto per riassumerne gli elementi salienti. Si citano fonti, si riassumono tesi, si offrono dati. Alla fine – escludendo le posizioni che non considerano plausibile una correlazione tra Shardana e Sardegna – le due ipotesi che rimangono sul campo sono: a) che questo fantomatico popolo fosse originario dell’area anatolica o siriana e da lì, tra XIV e XI secolo, sia migrato verso la Sardegna, prendendone possesso e dandole il suo nome; b) che si trattasse di una popolazione sarda coinvolta nei traffici e nei conflitti dell’Età del bronzo finale, una popolazione dedita alla pirateria e al mestiere delle armi, come mercenari al soldo di varie potenze (o dei Micenei o degli Egizi o di entrambi). Quel che sorprendentemente manca, nell’articolo in questione, è qualsiasi menzione del fatto che la Sardegna di quell’epoca non fosse un posto privo di civiltà. La Sardegna dell’Età del bronzo non era abitata da genti barbare, facili da sottomettere (come vorrebbe la prima tesi citata sugli Shardana), ovvero dedite ad attività tributarie verso le vere potenze del periodo (come vuole la seconda tesi). In entrambi i casi si omette di considerare che l’isola stessa aveva allora una propria civiltà evoluta. Estremamente evoluta. Si possono anche lasciar perdere le ricostruzioni fantasiose, le allusioni al mito di Atlantide, o altre interpretazioni romanzesche, ma il dato indubitabile è che la civiltà dei nuraghi c’è stata e non era una faccenda di pastori e agricoltori litigiosi, chiusi su se stessi e isolati dal mondo. Non è chiaro perché questa circostanza così dirompente sia omessa con tanta facilità.

Cito questo articolo, perché consente di evidenziare il nodo che sta alla base tanto della questione dei toponimi sardi, quanto di quella della conoscenza, della divulgazione e della valorizzazione della nostra storia. Il nodo è la persistente negazione di una soggettività collettiva dei sardi. Noi non possiamo aspirare a essere un soggetto “parlante”, un personaggio attivo della storia dei popoli europei e mediterranei. Quand’anche esistessimo, la nostra sarebbe un’esistenza di second’ordine, subalterna, tributaria appunto. Così è facile che le proteste di alcuni (pochi o molti non importa) a proposito della sacrosanta ridenominazione dei nostri luoghi con i loro nomi veri siano accolte a dispetto di un diritto insopprimibile e inalienabile (cioè quello di impiegare la propria lingua in ogni sede e per tutti gli usi possibili).

E succede inevitabilmente che una discussione fondamentale sulla valorizzazione della nostra ricca stratificazione storica e culturale venga deviata verso la sterile polemica, non senza il condimento degli anatemi accademici, a difesa di un fortilizio intellettuale sempre meno solido e ben munito, ma non per questo meno arrogante. E sempre in nome della nostra pretesa impalpabilità storica, della nostra inesistenza come soggetto collettivo dotato di una propria ragion d’essere e di una propria voce.

Il problema, insomma, non è il mito di Atlantide applicato alla Sardegna. È ovvio che non si possa fare alcuna concessione a tesi avventurose e fantascientifiche se alla base non c’è un apparato di conoscenze che sia solido e condiviso, e non solo a livello locale. Il vero problema non è che la Sardegna non sappia usare a suo vantaggio un mito molto conosciuto nel mondo, ma che la sua storia nel mondo sia pressoché ignorata. Della civiltà nuragica (o della civiltà giudicale, o persino di fatti ben pià recenti, come la Rivoluzione sarda) nessuno ne sa niente. Perché in tutto il pianeta si sa di Stonehenge (falso storico clamoroso, per altro), o delle piramidi egizie, o dei Maya e non si sa nulla di Su Romanzesu o del nuraghe Arrubiu? Perché conosciamo le repubbliche marinare italiche o la Guerra dei cent’anni e non sappiamo nulla dell’epopea giudicale e della guerra tra Arborea e Aragona? Eppure si tratta spesso di processi ed eventi di respiro ben più che locale, ben inseriti dentro la Storia europea e mediterranea.

La pecca dobbiamo cercarla in noi. Non possiamo fuggire la responsabilità di conoscere la nostra storia e di narrarla dal nostro punto di vista. La responsabilità del nostro sguardo sul mondo non è solo un diritto, ma è anche un dovere che abbiamo in quanto collettività storica di così lungo corso. Gli accademici e gli intellettuali sardi, oltre a sbertucciare l’ennesimo forestiero che viene ad insegnarci dove abitiamo, potrebbero convogliare almeno una parte di queste energie intellettive nello studio e nella divulgazione delle nostre vicende, dei documenti e dei lasciti materiali e culturali che ne sono testimoni, per restituirci quella soggettività che oggi è così facile negare, anche quando esprima esigenze fondamentali, che nessuno dovrebbe sognarsi di mettere in discussione. Non è un fatto di stampo nazionalista o etnocentrico. È la semplice esigenza di restituirci alla storia dell’umanità per quel che vi abbiamo rappresentato, e di restituire a noi, come collettività storica, un senso di appartenenza che non sia solo folkloristico o pittoresco, impostoci in nome di rapporti di potere diseguali di cui siamo l’elemento debole. È un fatto politico, dunque, ed anche culturale certo, e persino economico. Non è uno dei compiti meno significativi che ci toccano, in questa fase storica decisiva.

tratto da : (clicca qui)

 

2013.12.12 – IL FUTURO VA IN PORTO – ULTIMATUM ALL’ITALIA DA TRIESTE

Posted by Presidenza on 12 Dicembre 2013
Posted in articoli 

Domenica 8 dicembre si è svolta a Trieste una grande manifestazione per dare l’ultimatun all’italia che se ne deve andare per lasciare libero il territorio di Trieste.
Il ritrovo era davanti alla stazione di Campo Marzio.
Da li sono partite in corteo circa 3500 persone.
E’stato posto il divieto di passare davanti al “PICCOLO” quotidiano infamatore verso i triestini.
La manifestazione pacifica è durata per circa 4 ore con l’arrivo a “PORTO FRANCO” dove si è poi tenuta il comizio con la partecipazione di varie delegazioni straniere di cui l’Austria e Moravia.
E’ stata data lettura dei vari punti importanti che entreranno in vigore da subito ,di cui 8 in particolare che sono:

1. Art.18.2 dell’Allegato VIII al Trattato di Pace con L’Italia: “Il Direttore non deve essere cittadino jugoslavo o italiano.“
Il direttore dovrà di conseguenza essere selezionato quanto prima previo bando internazionale super partes, inoltre dovrà godere di tutti i poteri conferiti dagli artt. 18,19,20.

2. Art.2.1: “Il Porto Libero è istituito ed amministrato come una corporazione di Stato del Territorio Libero, avente tutti gli attributi di persona giuridica”
Dev’essere garantita quindi la completa autonomia dell’autorità amministrativa per il Porto di Trieste;

3. La sola forza di ordine pubblico consentita all’interno dei confini del Porto Libero potrà essere la polizia civile.

4. Art.2.2: “Tutte le proprietà statali e parastatali italiane nei limiti del Porto Libero,[…] saranno trasferite, senza pagamento, al Porto Libero.”
Va dunque finalizzato il passaggio definitivo di tutte le proprietàentro i confini del Porto Libero allo stesso.

5. Art.17: I firmatari devono “garantire libertà di comunicazione postale, telegrafica e telefonica tra l’area del Porto Libero e tutti i paesi”
Il Porto Libero dovrà disporre di un proprio sistema di poste e telecomunicazioni, del tutto indipendente e svincolato dai sistemi di comunicazione di qualsiasi Stato.

6. Art.7.1: “Il Direttore del Porto Libero può anche permettere l’elaborazione di merci“
Va data con urgenza l’autorizzazione ad avviare elaborazione di merci, attività manifatturiere e di emporialità senza alcun vincolo. In particolare, l’inutilizzato Magazzino 26 dovrebbe essere adibito in tempi brevissimi ad incubatore di start-up interno alla Free Zone.

7. Art.5.2: Le autorità non possono imporre “dazi doganali o pagamenti diversi da quelli imposti per servizi resi”.
Dev’essere quindi predisposta l’eliminazione di qualunque pagamento alle autorità amministrative italiane, ad eccezione di quelli per servizi resi, anche abolendo la sopratassa discriminatoria di cui al art. 4 del DPR 107 del 28/5/2009.

8. Art.18.3: “In tutte le assunzioni di personale la preferenza deve essere data a cittadini del Territorio Libero.”
Andranno infatti scelti con carattere preferenziale, a parità di competenze, cittadini di Trieste e Territorio.

Letto tutto questo, è stata prefissata la data in cui l’Italia se ne deve andare : 10 febbraio 2014 giorno di ricorrenza del trattato di pace del 1947.
Da quel momento inizieranno i lavori con grande gioa della folla che applaudiva a non finire.
In conclusione della conferenza il grande ROBERTO GIURASTANTE insieme a VITO POTENZA, altro grande leader triestino,hanno ringraziato tutte le delegazioni presenti, di cui quella veneta del MOVIMENTO DI LIBERAZIONE NAZIONALE DEL POPOLOVENETO.
Infine ci siamo salutati promettendoci rispettivamente collaborazione : “sempre uniti fino alla fine”.
Queste sono state le parole di saluto un:
W TRIESTE da parte nostra e W SAN MARCO  E LA SERENISSIMA REPUBBLICA da parte loro con i saluti
al nostro Presidente e a tutto il Movimento.
WSM
Venetia, mercoledì 11.12.2013
Maria Marini Delegata del MLNV – Provveditore Generale del Governo Veneto Provvisorio

tratto da : (clicca qui)

11 Dicembre 2013

La retorica del “tutti sono uguali” è una retorica distruttiva e alla fine reazionaria. Il qualunquismo è una brutta bestia e ci mette un attimo a mostrarsi per quello che è: fascismo dissimulato. Nella ignoranza diffusa, le semplificazioni emotive hanno vita facile. Togliere strumenti critici alle masse, impoverire la cultura politica della cittadinanza, indebolire la scuola e l’università, togliere spazi al libero esercizio della creatività e della differenza di visione non portano a forme di maggiore emancipazione sociale e culturale, ma a facili strumentalizzazioni del malessere diffuso.

Purtroppo la storia è pressoché sconosciuta ai più, altrimenti sarebbe evidente la similitudine tra questi nostri anni e quelli tra il 1919 e il 1925. Allora la guerra aveva lasciato ovunque strascichi dolorosi e una situazione socio-politica fragile. Le spinte dei tempi erano troppo più forti della capacità politica delle classi dominanti. In Sardegna il fenomeno era ancor più evidente, con i reduci dal fronte determinati a cambiare in meglio la propria sorte e quella dell’intera isola, mentre la politica di stampo coloniale e clientelare che aveva prevalso negli ultimi cento anni non aveva più nulla da dire alle masse. Sappiamo che se non fosse stato per la debolezza culturale della leadership del movimento dei reduci e del PSdAz, gli esiti di quella stagione sarebbero stati diversi dalla normalizzazione che seguì ai successi elettorali dei sardisti (normalizzazione che si sostanziò nella rinuncia a un processo di autodeterminazione vero, con la sanzione simbolica del passaggio al fascismo di una parte consistente del PSdAz medesimo).

Cosa sia successo in quegli anni, almeno a grandi linee, dovremmo tenerlo a mente tutti. Del marasma dei movimenti di piazza e del malcontento generalizzato trasse vantaggio chi possedeva l’intelligenza politica e la mancanza di scrupoli necessarie a cavalcare la crisi con parole d’ordine semplici, con narrazioni forti quanto sentimentali, che rimuovevano la complessità del divenire storico e offrivano un prontuario ideologico facile facile e ampiamente deresponsabilizzante. L’appoggio della classe dominante, desiderosa di cambiare tutto per non cambiare niente, non tardò ad arrivare. Ovviamente sto parlando di Mussolini e del fascismo, con i suoi emuli e i suoi ammiratori sparsi per l’Europa e per il mondo intero.

La diseducazione alla complessità e la perdita di punti di riferimento ideali e istituzionali non portano mai a niente di buono, oggi come allora. Se manca una elaborazione intellettuale onestamente problematica delle forze che animano le nostre relazioni, dei rapporti di produzione in cui siamo inseriti e delle forme narrative di cui si alimenta la nostra vita comunitaria, davanti a una crisi sia materiale sia spirituale siamo nelle mani degli uomini della provvidenza, dei capi carismatici, del pensiero debole. Niente di emancipativo può venir fuori da questi processi.

Oggi, che l’Europa conosce una stagione di nuovi nazionalismi e di derive xenofobe e reazionarie, che l’Italia è percorsa da un movimento a tratti squadristico come quello dei “forconi” e la Sardegna, a parte i forconi nostrani, è interessata in generale dalla crisi del sistema di potere fin qui dominante, dobbiamo essere più vigili che mai. Per chi ha spadroneggiato sulla scena fin qui e per chi vuole spadroneggiare ancora, la tentazione di strumentalizzare il malcontento a vantaggio di interessi costituiti è pressoché irresistibile. Usare parole d’ordine apparentemente liberatorie ma in realtà prive di senso politico e di visione d’insieme, garantisce la mobilitazione dei delusi e un facile consenso, ma non è la base su cui costruire alcunché di solido, pacifico e democratico.

L’atteggiamento prevalente nell’establishment sardo è di tipo chiaramente conservativo. Chi ha ruoli che producono vantaggi, tende a difenderli con qualsiasi mezzo, a volte – furbescamente – appropriandosi di temi o slogan dei propri avversari o apparentemente controproducenti per sé e per la propria parte. Così facendo, invece, li depotenzia e li piega a facile strumento di controllo. Altri, che magari non appartenevano fin qui alla classe dominante, provano ad approfittare dell’indebolimento politico e culturale attuale per essere ammessi tra le sue schiere, proponendosi come provvidenziale foglia di fico da ostentare davanti alle strutture di potere consolidate, onde renderle presentabili e al passo con i tempi. Anche questo non è un inedito, in fondo.

In Sardegna d’altra parte manca totalmente un tessuto intellettuale libero e svincolato da interessi costituiti. O, se c’è, è frammentario e minoritario. Per lo più l’elaborazione teorica e politica, la comunicazione attraverso i mass media e la diffusione della cultura e dell’istruzione attraverso le agenzie formative formali e informali soffrono di un pesantissimo conformismo al sistema di potere imperante e sono irretiti da un rapporto equivoco e subalterno con le filiali locali dei partiti e dei centri di interesse italiani. Da quella parte è difficile che arrivino contributi critici emancipativi. Può giusto manifestarsi una difesa a oltranza dello status quo, a volte con argomentazioni penose e evidentemente disperate, ma niente di più.

Se però si nutre l’aspirazione a un processo di emancipazione collettiva, di liberazione delle forze sane della società, verso un orizzonte più aperto, più democratico e più responsabile, l’unica strada è quella del rafforzamento dei presidi culturali e relazionali, in nome di una complessità che non si può eliminare, ma solo affrontare ben equipaggiati, per non esserne schiacciati.

È fondamentale, per questo, indebolire e se possibile sconfiggere l’assetto della dipendenza e i suoi risvolti assistenzialistici, rivendicazionisti e spesso falsamente liberatori di cui è costellato il nostro ambito politico, amministrativo ed economico. Sono la dipendenza e la sua ideologia, il dipendentismo, il vero nemico da abbattere. Ipotizzare un processo di autodeterminazione che sia anche democratico ed emancipativo senza fare i conti con questo elemento è un mero esercizio retorico o un inganno. Se pure un giorno la Sardegna diventasse un ordinamento giuridico sovrano, uno stato indipendente, ma non avesse abbattuto gli assetti della dipendenza e i loro effetti materiali e culturali diffusi, la stessa indipendenza potrebbe rivelarsi un mero espediente formale. Saremmo comunque in balia di forze più grandi di noi, di centri di interesse capaci di manipolare e di piegare ogni processo al proprio tornaconto, di operazioni speculative e invasive facilmente presentabili come convenienti, ma in realtà distruttive. Quanto e più di quel che sta già succedendo ora.

Il processo che ci porterà all’autodeterminazione e i suoi contenuti ideali, pragmatici e culturali determineranno la qualità della nostra esistenza da qui ai prossimi decenni. La vacua retorica para-nazionalista o pseudo-rivoluzionaria, usata per mistificare richieste di assistenzialismo ancora maggiore e forme di subalternità deresponsabilizzante ancora più profonde, non è alleata, in questo cammino, ma è un ostacolo, o un avversario. Per questo tutti i sardi che abbiano a cuore il proprio benessere e la propria dignità, la giustizia sociale e la possibilità di interagire col mondo circostante come soggetto della propria storia dovrebbero sopra ogni altra cosa contribuire ad abbattere la dipendenza e il dipendentismo in ogni loro forma, per quanto amichevoli essi possano sembrare. Lì sta il nocciolo del problema e lì bisogna agire. Subito. Adesso

tratto da : (clicca qui)