13 Dicembre 2013
La mobilitazione sociale e popolare degli ultimi tre anni – inedita in un paese relativamente tranquillo sul fronte delle rivendicazioni nazionali come la Catalogna – ha ottenuto ieri una prima importante vittoria. Dopo tre ore di serrato confronto, i rappresentanti di quattro importanti formazioni politiche catalaniste di diverso orientamento ideologico hanno convenuto sulla formula da adottare per chiamare gli abitanti del ‘Principato’ alle urne. Accordo raggiunto anche sulla data in cui si dovrebbe celebrare il referendum sull’autodeterminazione: il 9 novembre dell’anno prossimo. Neanche due mesi dopo un analogo referendum già fissato in Scozia e che potrebbe separare – anche se non del tutto – Edimburgo da Londra. Non era scontato che il variegato fronte sovranista raggiungesse la quadra. Perché le differenze tra i quattri partiti promotori dell’iniziativa non sono poche: si va dai regionalisti di CiU, capitanati dal liberista governatore della regione autonoma, Artur Mas, ai liberalsocialisti di Erc (Sinistra Repubblicana), agli ecosocialisti di Icv (Iniziativa per la Catalogna Verde, branca locale ma assai autonoma di IU) e gli indipendentisti radicali della Cup (Candidatura di Unità Popolare, sinistra antagonista). I quattro leader – Artur Mas, Oriol Junqueras, Joan Herrera e David Fernandez – hanno alla fine partorito una soluzione di compromesso, e quindi se la consultazione popolare si dovesse tenere – il condizionale è d’obbligo – sulla scheda gli elettori catalani troveranno due quesiti: “Vuole lei che la Catalogna sia uno Stato?”. E poi, in caso affermativo: “Vuole lei che la Catalogna sia uno Stato indipendente?”. Gli indipendentisti che spingevano per una domanda secca hanno dovuto accettare di fare un passo indietro per convincere CiU ad essere della partita. Il che potrebbe comunque portare a una spaccatura nella coalizione storica della borghesia regionalista catalana con gli autonomisti di Unione Democratica di Catalogna che soffrono la scelta indipendentista di Convergenza Democratica e continuano a pensare che le classi dominanti della regione debbano continuare ad esercitare un ruolo di mediazione tra le spinte nazionaliste spagnole e quelle sovraniste catalane, ottenendo vantaggi politici e soprattutto economici su entrambi i fronti. Ma la crisi economica che sta investendo la Spagna ha determinato una rapida e generalizzata crisi di legittimità per le istituzioni centrali rinvigorendo le spinte indipendentiste e convincendo anche una parte della borghesia catalana e dei ceti medi a gettarsi nella mischia per non perdere ulteriori consensi (Mas nei sondaggi cala a picco così come le intenzioni di voto di Ciu, a scapito di Erc e addirittura della Cup). I segnali degli ultimi anni sono stati inequivocabili: a milioni sono scesi in piazza negli ultimi tre anni durante la celebrazione catalanista dell’11 settembre, e finora ben 160 municipi del Principato si sono già dichiarati “territorio catalano libero e sovrano”.
Il doppio quesito lascia comunque aperta la strada di una ‘semi-indipendenza’, simile tra l’altro al modello proposto dal Partito nazionale scozzese: uno ‘stato’ ma sotto la copertura della Spagna per quanto riguarda la difesa, la politica estera e molte questioni di politica finanziaria. E’ chiaro l’intento da parte della borghesia catalana di lasciare aperta la porta di una contrattazione con gli apparati dello Stato Spagnolo – più privilegi fiscali e politici in cambio di uno stop all’indipendenza totale – che però per ora Madrid non sembra raccogliere. Con il solito linguaggio minaccioso tutti gli esponenti di punta del governo del Partito Popolare hanno non solo affermato che il referendum per la legge statale è illegittimo e illegale e quindi non si potrà tenere, ma che faranno tutto quanto in loro potere per impedirlo. Da questo punto di vista la Costituzione frutto dell’autoriforma del regime franchista in nuove vesti più consone all’ingresso della Spagna nell’incipiente Unione Europea lasciano ampio margine agli apparati dello Stato e alla Forze Armate per impedire la ‘secessione’ e intervenire anche con la forza contro le istituzioni e il governo catalano. La Costituzione della Spagna stabilisce che un referendum possa essere indetto soltanto dal governo centrale. Salta agli occhi la differenza di atteggiamento tra Londra – che ha accettato senza particolari conflitti la celebrazione a settembre del 2014 di un referendum per l’autodeterminazione della Scozia – e Madrid. D’altronde anni fa fu un governo conservatore a iniziare i colloqui che portarono alla fine della lotta armata degli indipendentisti irlandesi in Ulster mentre neanche un “socialista” come Zapatero ha voluto e potuto portare a casa un risultato simile con l’insorgenza basca.
Se il PP fa la voce grossa e mostra i muscoli contro i catalani e i baschi – anche perché alla sua destra cresce pericolosamente un movimento reazionario di massa che trae linfa proprio dall’indurimento della guerra ideologica con i vari ‘secessionismi’ – le opposizioni socialiste (Psoe) e liberal-nazionaliste (UpyD) non sono da meno, ed anche la sinistra unita (IU) non riesce a prendere una posizione troppo diversa dal fronte sciovinista spagnolo.
Secondo i sondaggi più recenti i due terzi degli abitanti della Catalogna – immigrati compresi – sono a favore della celebrazione del referendum sull’autodeterminazione, e più della metà voterebbero si al distacco da Madrid. Dall’altra parte il numero di contrari non è molto più alto dell’insieme degli indecisi, e quindi le minacce e la chiusura a riccio da parte dello Stato Spagnolo potrebbero generare una reazione indipendentista anche in settori dell’opinione pubblica non particolarmente convinti dell’opportunità di votare ‘si’. Madrid per ora cerca e ottiene l’appoggio della Nato e delle istituzioni dell’Unione Europea: da Bruxelles vari esponenti delle due entità hanno avvertito i catalani che Barcellona si separasse resterebbe automaticamente fuori dall’UE e dall’Alleanza Atlantica. Certamente un tentativo di spaventare i settori moderati e conservatori del fronte indipendentista. Ma in tempi di crisi nera e di caduta della credibilità del progetto integrazionista europeo per alcuni settori quella che a certi può suonare come un salto nel vuoto potrebbe invece apparire una via d’uscita appetibile
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