Il governo svedese, con un atto di portata storica, dando seguito alla decisione del proprio parlamento, riconosce lo Stato di Palestina.
Il portato della decisione non è solo quello di ricollocare finalmente la questione palestinese nel quadro della legalità internazionale sfregiato da quasi 50 anni di occupazione coloniale, quanto e soprattutto quello di restituire una prospettiva concreta all’agonizzante soluzione «due popoli due stati» in quel tormentato lembo di terra che si estende fra il Giordano e il mar Mediterraneo.
Come prevedibile, dalle fila del governo israeliano ma anche da quelle della connivente e sedicente opposizione si è levata la consueta litania di indignate proteste e di minacciose previsioni. Il tutto nutrito dalla consunta e ipocrita retorica sicuritaria il cui unico scopo è quello di conferire legittimità alla politica dei fatti compiuti dei governi israeliani.
Finora l’indecente inerzia della comunità internazionale ha garantito l’impunità all’occupazione e alla colonizzazione illegittime delle terre palestinesi, in violazione perpetua delle risoluzioni dell’Onu.
L’orizzonte che il lungimirante gesto svedese apre sarà verosimilmente quello di un adesione progressiva di tutti i paesi della Comunità Europea al colpevolmente tardivo riconoscimento dell’inalienabile diritto di ogni popolo all’autodeterminazione. Il ministro degli esteri israeliano, il razzista Lieberman, sostiene che la scelta del governo svedese danneggierà il processo di pace che può progredire solo con negoziati diretti e senza precondizioni. A questa patetica argomentazione, Saeb Erekat, uno dei grandi negoziatori palestinesi di Oslo, risponde con un semplice dato di fatto: il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione non può essere oggetto di negoziazione perché é titolarità esclusiva dei palestinesi. E i fatti, i semplici fatti raccontano un’altra storia.
Ogni singolo negoziato, con i «buoni» uffici del Dipartimento di Stato Usa si è risolto in un incremento degli insediamenti illegali. Ma l’establishment israeliano sembra avere con i fatti delle insormontabili difficoltà, dalle quali esce negandoli o spostandoli sul piano dell’autovittimizzazione.
Il gioco però comincia a mostrare i segni della consunzione al punto da irritare sempre di più anche l’amico americano. Recentemente un funzionario dell’amministrazione Obama si è espresso con una definizione poco lusinghiera nei confronti del premier israeliano Netanyahu, gli ha affibbiato l’appellativo chiken shit, cagasotto. Come era prevedibile, Obama e Kerry hanno preso le distanze dal giudizio di quel anonimo funzionario dicendo che non corrisponde al sentire dell’Amministrazione.
Il grande giornalista Gideon Levy, oggi la voce critica più coraggiosa di Israele, fa notare che quell’insulto anonimo, con il corollario della smentita ufficiale, è stato un formidabile assist offerto a Netanyahu che nel clima incandescente instauratosi a Gerusalemme ha già aperto la sua campagna elettorale e, mostrando di tenere testa a Obama, si è riaccreditato nei confronti dell’estrema destra, baAretz (nella Terra) e khutzlaAretz (nella Diaspora).
Gideon Levy afferma che il vero chickenshit è Obama, il quale, a chiacchiere, protesta per l’estensione delle colonie, ma, nei fatti, accondiscende a tutte le richieste di piena assistenza militare e finanziaria avanzate dal premier israeliano.
Il giudizio finale di Gideon Levy nei riguardi del Presidente americano è spietato: «la sua politica può essere definita solo in questo modo: abbietta codardia. Nethanyahu almeno agisce in accordo alla sua ideologia e al suo credo. Obama agisce contro le sue convinzioni e questa si chiama codardia».
Netanyahu dal canto suo considera Obama il figlio spirituale di Neville Chamberlein e inaugu¬rando la sua campagna elettorale con un discorso alla Knesset ha imbracciato per l’ennesima volta il suo arnese propagandistico preferito: lo spettro del secondo Olocausto ebraico che sarà messo in atto dall’Iran e dai Palestinesi e quindi, per scongiurare l’avverarsi dell’incubo, l’unica soluzione è la costruzione intensiva e pervasiva di nuovi insediamenti.
Non bisogna essere grandi analisti politici per intuire che questa visione è di una sconcertante rozzezza paranoide, eppure essa esercita sulla maggioranza dell’elettorato israeliano un irresistibile appeal, anche perché, allo stato delle cose, non esiste un’alternativa credibile a Bibi. La sua politica che, progressivamente, ha assunto tratti ultrareazionari e si fonda su un’alleanza inossidabile con le formazioni dell’estrema destra ultraortodossa e con i coloni oltranzisti sta inesorabilmente corrompendo la democrazia di quel Paese già avvelenata dal colonialismo e da un apartheid de facto che degrada verso forme di apartheid de iure.
Gli spazi della democrazia, contingentati per i cittadini arabi di Israele, si ridurranno progressivamente anche per i suoi cittadini ebrei. Netanyahu fa passare l’idea che gli oppositori dell’estensione degli insediamenti sono nemici dello Stato.
La deriva di intolleranza e di discriminazione razzista nei confronti dei cittadini non ebrei e degli oppositori è denunciata anche dal presidente dello stato ebraico Reuven Rivlin che, pur essendo uomo di destra e contrario alla soluzione dei due stati, è sostenitore della piena parità di diritti e dignità di tutti i cittadini che vivono sotto l’autorità dello stato di Israele.
In questa congiuntura, l’unica possibilità di contrastare la deriva imboccata da Bibi che opprime i Palestinesi e devasta il futuro di Israele è che l’intera Ue segua subito l’esempio della Svezia, metta il governo israeliano di fronte alle sue responsabilità nei confronti della legalità internazionale, e assuma un il ruolo di primo piano in veri negoziati al posto degli Usa che non sono mai stati negoziatori ma piuttosto sponsor, sodali e complici di Netanyahu.
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