di Maurizio Onnis
La borghesia sarda ha sulla coscienza due peccati capitali di portata storica. Tali da rendere il titolo di quest’articolo un mero artificio retorico, adatto quasi solo ad attirare l’attenzione del lettore. Vediamo di che si tratta.
Il primo peccato capitale è aver scelto, nell’ultimo mezzo secolo, di non farsi classe imprenditoriale solida, dedita al rischio economico e alla competizione di mercato. Tale condizione ha radici profonde, ma è diventata scelta consapevolmente attuata e non più giustificabile nei lunghi decenni dell’Autonomia. Quando il denaro convogliato in Sardegna da Roma, poco o tanto che fosse, è stato utilizzato non come volano di uno sviluppo progettualmente coerente e di una crescita diffusa della formazione e delle capacità economiche, ma come semplice strumento di clientelismo e addomesticamento d’intere popolazioni, che uscivano dalla pura sussistenza e volevano godere senza fatica dei benefici della modernità.
Allora, nel momento in cui si sono fatte improvvisamente disponibili le risorse che dovevano rendere possibile il balzo dall’arretratezza al futuro, la borghesia al governo ha effettuato la scelta più facile: puntare tutte le carte sull’industrialismo, concentrando i mezzi su pochi e straordinari interventi, trascurando le occupazioni e le inclinazioni caratteristiche dei sardi. E rinunciando soprattutto a sfruttare la nuova ricchezza per ripensare se stessa in grande.
Il tenore di vita della massa è cresciuto, ma la borghesia stessa, tramite del cambiamento, è rimasta nana. Oggi cerca occupazione nelle libere professioni (avvocati, notai, medici), siede in pletora negli uffici pubblici statali o regionali, governa l’insegnamento e il mondo accademico. Se si dedica agli affari, si dedica al commercio, in netta prevalenza al dettaglio. Le imprese sono piccole o piccolissime, non dispongono di capitali adeguati e di adeguato credito, non puntano al mercato esterno e devono piuttosto difendersi dall’invadenza altrui. La borghesia sarda, in altre parole, è una borghesia dei servizi e non della produzione, che consuma molta più ricchezza di quanta ne crei, quasi costituzionalmente nemica, si potrebbe dire, dell’impresa e dell’alea ad essa connessi. Una classe, dunque, tendenzialmente conservatrice e nemica del nuovo.
Il secondo peccato capitale è non esistere come classe cosciente di sé, dei propri interessi distinti da quelli degli altri gruppi sociali e degli interlocutori romani, del proprio ruolo dirigente e della possibilità di sfruttarlo per trainare l’intera società sarda. Anche questa condizione ha ragioni che si perdono nei secoli. Eccettuata la fiammata rivoluzionaria di fine Settecento, da mezzo millennio in qua la classe ai vertici della Sardegna, prima aristocratica e poi borghese, ha ritagliato per sé il comodo ruolo di tramite con i poteri dominanti esterni all’isola. E dalla sconfitta di fine Settecento non si è mai rimessa, rinunciando ad accollarsi la dura e lenta lotta che le borghesie nazionali d’Europa, nell’Ottocento, hanno invece condotto per la liberalizzazione dei regimi politici e il liberismo economico.
Tale atteggiamento è perdurato in epoca regia, fascista e repubblicana. E se poteva forse un tempo essere giustificato dalla solitudine della borghesia stessa, immersa in una società isolana dominata da analfabetismo e immobilismo, coartata dallo Stato poliziesco, certo non lo è per l’epoca recente. Istruzione di massa e democratizzazione politica hanno posto infatti le basi su cui una borghesia volitiva avrebbe potuto lavorare per portare i sardi verso una più matura consapevolezza di popolo. Poteva diventare, se avesse scelto questa strada, una borghesia riformista nei metodi ma rivoluzionaria nei risultati, per la maturazione propria e di tutti.
Invece, ancora una volta e ancora oggi, la borghesia sarda si è adattata e si adatta al ruolo di sensale. Assisa in Regione, conduce sfiancanti campagne di mediazione per strappare a Roma finanziamenti più o meno consistenti, che serviranno a tacitare la protesta sociale e a mantenere immutato lo stato delle cose. Mentre non c’è traccia di un coerente progetto di crescita economica, sociale e soprattutto culturale dei sardi, progetto autoctono, originale, proprio. Con tutte le difficoltà del caso, di elaborazione e realizzazione, darebbe ai sardi un’idea di ciò che sono come collettività portatrice di propri interessi, li renderebbe coscienti di essere “altro” rispetto e insieme al mondo. E non appendice politica del continente, che sente di esistere solo quando Roma concede spazio, spesso illusorio, nell’una o l’altra delle tante vertenze aperte tra governo regionale e centrale.
Difficilmente due peccati di tale portata sono espiabili. Eppure la cronaca concede oggi alla borghesia sarda una nuova opportunità. E vedremo se si tramuterà in un’opportunità storica. Questa borghesia ha davanti un bivio ineludibile. È fallito il modello di sviluppo basato sull’industria: come detto, sostituito solo da navigazione a vista. Siamo nel pieno di una crisi socio-economica di cui non si vede il fondo e che si cerca di controllare con le briciole cadute dalla mensa dei ricchi. Non di governarla, indirizzandola, ma appena di controllarla.
Le scelte di Roma (queste sì strategiche, ma per l’Italia) in tema di energia, autonomie locali, servitù militari, beni culturali rendono palese il divario tra gli interessi del continente e quelli della Sardegna. Divario sotto gli occhi di tutti, talmente ampio ed evidente che la stessa Giunta non può negarlo: ecco allora che a governi dichiarati ripetutamente “amici” si chiede con insistenza patetica il rispetto e l’aiuto che i veri amici ti danno senza che tu debba bussare ogni giorno alla loro porta con la mano tesa.
La discrepanza, tuttavia, non appare più sanabile con interventi d’emergenza e, quand’anche fosse colmata sul piano economico, rimarrebbe aperta sul piano culturale. Troppi ormai in Sardegna sanno che la Sardegna non è Italia. È questa la vera differenza rispetto al passato: negli ultimi quindici anni si sono accesi nella società sarda fermenti tali da non rendere più possibile l’acquiescenza di massa. Qualsiasi governo regionale, di qualsiasi colore, sa ora che accontentare Roma vuol dire automaticamente scontentare i sardi.
È il bivio: da che parte vuole stare la borghesia dell’isola? Dalla parte di chi le assicura una comoda e anonima sopravvivenza o dalla parte dei sardi? I primi amici della borghesia sarda sono i sardi. I primi cittadini di cui la borghesia sarda deve interessarsi sono i cittadini sardi. È per il loro benessere, per la loro crescita, per la loro indipendenza che deve lavorare.
Non farlo significherebbe rifiutare ancora una volta la propria responsabilità storica.
Ancora peggio, significherebbe avvalorare il pensiero sempre sotteso alla servitù verso Roma: che da soli i sardi non possano farcela, che qualsiasi compromesso al ribasso con l’Italia sia meglio e più di ciò che i sardi potrebbero ottenere da sé. Sarebbe, di nuovo, il trionfo della mentalità coloniale.
Questo vuole la borghesia sarda?
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