Basta con l’ euro e avanti con “su soddu” !!!

 

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venerdì 21 novembre 2014

VARSAVIA – Il partito di opposizione Diritto e giustizia (profondamente euroscettico e contrario alla permanenza della Polonia nella Ue) dell’ex premier Jaroslaw Kaczynski ha stravinto le elezioni amministrative in Polonia con 31,5% dei voti contro il 27,3% dei moderati del partito Piattaforma civica (Po) del premier in carica Ewa Kopacz e del neopresidente dell’Unione Europea, Dojnald Tusk.
Lo rivelano i dati dell’istituto Ipsos, resi resi noti dal canale Tvn 24. Il Partito dei contadini (Psl), in coalizione di governo con Po dal 2007 a livello nazionale, si profila come terza forza con ha un 17% di preferenze, con un crollo verticale di consensi.
E decine di manifestanti hanno fatto irruzione – ieri – nella sede della commissione elettorale polacca a Varsavia, occupando l’edificio in protesta contro il ritardo dell’annuncio dei risultati delle elezioni locali di domenica. La maggior parte dei dimostranti sono sostenitori del partito nazionalista Diritto e giustizia, che secondo gli exit polls avrebbe trionfato nelle elezioni. I manifestanti chiedono le dimissioni dei membri della commissione elettorale a seguito di problemi con il sistema informatico per il conteggio dei voti. Intanto la procura sta indagando su un attacco di hacker al sito web della commissione. Kazimierz Czaplicki, direttore dell’Ufficio elettorale nazionale, si è dimesso a causa dei ritardi nel conteggio dei voti e lascerà l’incarico il primo dicembre, dopo il ballottaggio delle elezioni locali.
E il 2015 sarà un anno cruciale per la Polonia. Nel mese di giugno si terranno infatti le elezioni presidenziali, nelle quali l’attuale presidente Bronisław Komorowski, sostenuto nel 2010 da Piattaforma civica, cercherà probabilmente di ottenere un secondo mandato. A sfidarlo sarà probabilmente, come è già avvenuto nel 2010, lo stesso Kaczynski, che in quell’occasione fu sconfitto al ballottaggio (53% contro il 47%). La vittoria dell’uno o dell’altro candidato sarà probabilmente decisiva per le elezioni parlamentari che seguiranno di pochi mesi.
Questa vittoria nelle elezioni amministrative di domenica scorsa della destra euroscettica mette un forte freno al già lento avvicinamento della Polonia all’adozione dell’euro e potrebbe diventare un elemento di destabilizzazione per tutta la Ue, sia per il peso politico ormai acquisito dalla Polonia, sia per la presenza – di segno opposto rispetto a Kaczynski – di Tusk a uno dei vertici delle istituzioni comunitarie. Queste elezioni amministrative avrebbero dunque dovuto sancire la leadership di Ewa Kopacz davanti alla lunga campagna elettorale del prossimo anno, ma la sconfitta del suo partito rimette ora tutto in discussione.
Un fatto comunque è certo: la vittoria degli euroscettici in Polonia dimostra che l’Unione europea e la valuta unica europea sono sempre più viste come un pericolo e una minaccia dai popoli d’Europa.

tratto da: (clicca qui)

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DI TASSOS KOSTOPOULOS
Era uno spettacolo selvaggio e allo stesso tempo senza precedenti: senza che ci fosse stato il lancio di neanche una pietra, senza che ci fosse stata la benché minima schermaglia, via Stournari si e’ coperta improvvisamente di centinaia di corpi calpestati di giovani disarmati che, da un momento all’altro, si sono trasformati in oggetto di sfogo per decine di uomini dei MAT.

Caricando inaspettatamente da tutte le strade secondarie, con l’urlo unanime di «γαμήστε τους! γαμήστε τους!» (NdT “fotteteli! fotteteli!”), era evidente che questi ultimi se la godevano: per un quarto d’ora picchiavano senza pietà gli studenti caduti, calpestavano, spruzzavano in faccia, lanciavano tra la folla delle granate assordanti, fermandosi di tanto in tanto solo per esprimere bestemmiando il loro entusiasmo per questo loro delirio non corrisposto. Unici fortunati quei pochi che hanno fatto in tempo ad entrare nel portone del ΕΜΠ (NdT Politecnico di Atene) sulla via Stournari, nel mezzo minuto che e’ trascorso tra la sua apertura fino all’attacco dei poliziotti ai circa 1.500 manifestanti.
«Si sono verificati degli scontri corpo a corpo, degli scontri corpo a corpo duri, ma alla fine li abbiamo respinti», riferiva con tono battagliero alla radiotrasmittente il comandante della squadra all’incrocio delle vie Stournari e Kannigos poco dopo l’epurazione del perimetro dell’istituto dagli studenti. Scontri duri per davvero: da una parte bestemmiando si alzavano e si abbassavano i manganelli mentre dall’altra si cercava disperatamente di fuggire. Oppure si piangeva come quelle ragazzine, schiacciate per un’ora da una squadra sul muro del Politecnico raccogliendo calci o spruzzate sul viso.
Avendo compiuto 30 anni in questo tipo di reportage, questa e’ stata la prima volta che ho visto lo disperdersi violento di una manifestazione pacifica trasformarsi in una specie di “festa” palese. Di solito i MAT picchiano in silenzio o, al massimo, emettendo delle disarticolate grida di “battaglia”. Dopo il voto massiccio dei MAT a favore dei nazisti sembra sia giunta l’ora di vedere i loro reparti di battaglia festeggiare – letteralmente – l’anniversario del loro 1973 (NdT 17/11/1973, la rivolta del Politecnico di Atene).
Tassos Kostopoulos

Informazioni aggiuntive a cura di GEORGIOS
I famigerati reparti antisommossa MAT che vengono affiancati nel loro “lavoro” dalle squadre in motociclette di piccola cilindrata (per terrorizzare operando con facilità tra la gente non solo in strada) ΔΙΑΣ e ΔΕΛΤΑ, contano di circa 7.000 agenti cioè il 10% delle forze di polizia greche. Sono giovani per la maggior parte reclutati negli anni dei memoranda che a causa della loro giovane età non hanno impegni familiari. Per loro i 600 euro al mese percepiti insieme al senso di “autorità” scaturito dalla loro divisa, sono più che sufficienti per fare “bella figura” in un paese tormentato da livelli di disoccupazione spaventosi.
A differenza dei loro colleghi poliziotti “normali” (che in qualche occasione hanno manifestato i loro sentimenti anti-troikani), sono impregnati dall’ideologia nazista e durante le elezioni votano massicciamente per il partito neonazista di Alba Dorata. Il loro comportamento bestiale contro i loro concittadini smaschera chiaramente il carattere servile verso gli occupanti stranieri da parte di Alba Dorata che a slogan si dichiara un “partito patriottico” anche se non ha fatto neanche una manifestazione per protestare contro le politiche da colonia tedesca dei governi di Atene.
Ultimamente il comportamento violento a scopo intimidatorio dei MAT (specialmente verso i giovani) e’ stato notevolmente accentuato dopo l’ultimo giro di vite delle politiche governative contro il sistema educativo del paese che vogliono spogliare di ogni elemento di carattere sociale e democratico per consegnarlo nelle mani degli interessi privati come descritto molto efficacemente nel seguente video sottotitolato in italiano.

Qui invece potete ammirare le bravate delle squadre ΔΙΑΣ (quelli con le motociclette) che arrivano perfino al saccheggio. Questi episodi sono susseguiti alla grande manifestazione di Mercoledì 17/11 in occasione del 41o anniversario della rivolta contro la dittatura dei colonnelli del 1973.

tratto da: (clicca qui)

2014.11.19 – TTIP: la storia si ripete

Posted by Presidenza on 19 Novembre 2014
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di Alberto Bagnai
La crisi è democratica: colpisce la maggioranza. Le persone colpite, che appartengono agli ambiti più disparati, ogni tanto reagiscono, e lo fanno in base al proprio bagaglio culturale e alla propria esperienza di vita, com’è normale che sia, e ciascuno ponendo se stesso, quello che sa e quello che ha fatto come chiave di lettura privilegiata. È umano. Abbiamo così letture botaniche della crisi, letture filateliche della crisi, letture giuridiche della crisi, letture naturalistiche della crisi, e chi più ne ha più ne metta.

Da ognuno c’è qualcosa da imparare, ma rimane il fatto ineludibile che questa è una crisi economica, cioè quella cosa che si verifica quando per motivi che abbiamo illustrato tante volte la gente si trova senza soldi in tasca. Va anche ricordato che, come i marZiani dovrebbero sapere e come una lettura anche superficiale dei fatti dimostra (soprattutto in Italia), le dinamiche economiche reggono quelle politiche, che a valle reggono quelle giuridiche, ed è questo simpatico trenino, guidato dalla locomotiva “Economia”, che ci porta a spasso per le interminate praterie della SStoria.

Deriva da questo semplice (ma ineludibile) fatto il vantaggio comparato di questo blog. So che dispiace a molti, ma per fortuna piace a voi, e tanto mi basta.

Oggi voglio parlarvi, da economista, e più precisamente da economista applicato, del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Parlare di un trattato commerciale in chiave economica è, lo premetto, una lettura riduttiva, e lo sappiamo benissimo. Quello che inquieta del TTIP sono alcuni aspetti giuridici, in particolare giurisdizionali, come la possibilità, che abbiamo sentito evocare più volte, per le imprese multinazionali di chiamare in giudizio gli Stati sovrani (?) che non si attengano alle prescrizioni di liberalizzazione del mercato che il trattato promuove (e che si riferiscono, badate bene, non alle barriere tariffarie – cioè ai dazi – ormai in via di definitivo smantellamento nel quadro dell’OMC, ma a quelle non tariffarie, cioè alle normative ambientali, igieniche, di sicurezza alimentare e fisica, ecc.). Insomma, la famosa fiorentina all’ormone della quale sentite ogni tanto parlare sui giornali. Rimarrà deluso Emilio Pica, che in un afflato socratico ci ha confessato di amare le donne androgine: nel meraviglioso mondo del TTIP tutti avranno una sesta di reggiseno, anche i maschietti.

(ah, Emilio, però quella me piace pure a me, sia chiaro: homo sum, nihil humani mihi alienum puto. E la Nappi la apprezzo più come filosofa…)

Questo, naturalmente, per quanto riguarda la parte “trade”. Poi c’è quella investment, che lasceremo da parte.

Parlare di un trattato commerciale in chiave economica è quindi riduttivo, ma, come vedrete, indispensabile per cogliere pienamente il carattere truffaldino e antidemocratico dell’operazione in corso, un’operazione che, come solo un economista può aiutarvi a cogliere pienamente, è del tutto isomorfa a quella compiuta col Trattato di Maastricht. Vengono cioè vendute agli elettori come conquiste assodate risultati di studi metodologicamente dubbi, palesemente in conflitto di interessi, i cui risultati vengono proposti orchestrando un falso pluralismo, e dietro ai quali ci sono, ovviamente, i soliti noti.

Il prequel
Come andò con il Trattato di Maastricht lo sapete e comunque ve lo ricordo in l’Italia può farcela. Michael Emerson, Jean Pisani-Ferry e Daniel Gros, prezzolati dall’Unione Europea (perdonatemi: “pagati” non è il verbo giusto, anche perché sono morte delle persone, chiaro?), nel loro studio One market, one money, affermarono che “a major effect of EMU is that balance of payments constraints will disappear in the way they are experienced in international relations. Private markets will finance all viable borrowers, and saving and investment balances will no longer be constrained at the national level” (Emerson et al., 1990, p. 24)[i]. Notate la raffinatezza della loro linea di attacco. Studiosi come Kaldor avevano da tempo ammonito che una moneta senza stato avrebbe disintegrato politicamente l’Europa, in particolare perché avrebbe creato squilibri che sarebbe stato necessario rifinanziare attraverso un budget federale. E allora i tre porcellini che si inventano? L’uovo di Colombo: loro sostenevano che non ci sarebbe mai stato bisogno, per il Nord, di rifinanziare il debito del Sud mediante trasferimenti, perché i mercati finanziari avrebbero prestato solo a chi fosse stato in grado di generare sufficiente reddito da ripagare i debiti (i “viable borrowers”, appunto). Ritenevano, cioè, i nostri amici, che non sarebbe stato necessario costituire uno Stato europeo, almeno nell’immediato, perché il mercato, che non può sbagliare, avrebbe pensato da sé a trasferire ove necessario i fondi, all’interno della nuova area finanziariamente integrata, senza bisogno di costruire un bilancio federale, e anzi affidando ai bilanci pubblici nazionali il compito di “respond to national and regional shocks through the mechanisms of social security and other policies” (ibidem)[ii]. Non ci sarebbe quindi mai stata una crisi di debito estero all’interno dell’Unione Monetaria (tesi che alcuni economisti ancora oggi sostengono – vedi Boldrin – ma che è sconfessata dai fatti e dall’interpretazione della stessa Bce).

Infatti, che le cose non siano andate come Pisani-Ferry sosteneva (e Boldrin sostiene), ce lo ha spiegato Constâncio(2013) (ma anche De Grauwe 1998); prima che i tre porcellini si esprimessero, come sarebbero andate le cosa lo avevano chiarito Thirlwall 1991, e subito dopo Feldstein 1992, e decenni prima Kaldor 1971 e Meade 1957. Se siamo nei guai è proprio per colpa degli errori dei mercati finanziari privati, che hanno accumulato insostenibili debiti esteri all’interno dell’Eurozona. Quindi i tre porcellini mentivano sapendo di mentire, perché erano pagati per mentire.
Il percorso è sempre quello: da Pangloss (“tutto va per il meglio nel migliore dei mercati possibili”) a Eichmann (“non sapevo, eseguivo gli ordini”), con biglietto di andata e ritorno, perché in mancanza dei drastici rimedi adottati dal governo israeliano nel caso in specie gli illustri colleghi rimangono disponibili ad appoggiare il progetto successivo. Ma le “incognite” delle quali parla Pisani-Ferry tutto erano fuorché “incognite”: i rischi dell’Unione Monetaria erano stati denunciati dalla letteratura accademica e divulgati sulle più importanti testate finanziarie internazionali. Quindi “io non sapevo” meriterebbe il trattamento che ha avuto in altri tribunali, ma passons. Noi siamo per la non violenza, cioè per subire la violenza, non per esercitarla, perché gli altri, come vedete, tanti scrupoli purtroppo non se li fanno.
Il sequel E oggi? Come vanno oggi le cose, con il TTIP? Nello stesso identico modo. Ci vengono proposte come verità oggettive i risultati di studi basati su una cieca fede nella capacità autoequilibrante del mercato, studi dei quali fin da ora è possibile sconfessare gli errori metodologici, ma, attenzione: gli studi vengono a valle di decisioni politiche già prese (come fu per One market, one money)…
Ci aiuta a orientarci un recente studio di Jeronim Capaldo, The Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership: European Disintegration, Unemployment and Instability.
Non lasciatevi fuorviare dal nome: nonostante la collocazione negli States, il Jeronim cui facciamo riferimento non è questo, è questo. Jere è romano de Roma, ma la sua mamma no, da cui la scelta un po’ esotica del nome di battesimo. Io ho studiato Ragioneria I con suo zio, sono stato in commissione ricerca alla Sapienza con sua madre, e molti di noi sono stati, credo, clienti della sua famiglia (com’è piccolo il mondo…). Lui, a sua volta, è stato mio “cliente” quando ero ricercatore in econometria alla Sapienza, nel lontano anno accademico 2001-2002, quando discusse una tesina sulla curva di Phillips (pensa un po’ te…). Ora è finito qui, da dove è stato mandato qui a lavorare sul Global Policy Model. Mi illudo di essergli stato un po’ utile (o per lo meno lui la pensa così), e sono contento che ci sia un economista eterodosso infiltrato a Ginevra. Sì, perché Jere è relativamente “de sinistra”. Certo, questo lo ha portato a commettere un errore cruciale: ha diffuso in Italia i risultati del suo pregevole studio tramite un forum che nessuno legge (rank in Italy: 27804, secondo Alexa oggi), perché, come sapete, ha tradito. Lo Sbilifesto merita di essere consegnato all’oblio (e li esorto a considerare che, per quello che hanno fatto – soffocare scientemente il dibattito sulla moneta unica, quel dibattito che sono riuscito a portare dove sapete – l’oblio è molto meglio dell’alternativa), però lo studio di Jere no, e visto che uno di voi me l’ha segnalato, ne faccio una simpatica sintesi per i diversamente europei e diversamente economisti. Gli faremo così risalire più di 24000 posizioni in termini di visibilità: mi aspetto una cassetta di vino per questo, va da sé…
Dunque: il copione è sempre il solito. Esattamente come in One market, one money:
1) vengono proposti come vantaggi certi e determinanti dei vantaggi aleatori ed irrisori; 2) non vengono quantificati i potenziali svantaggi; 3) i metodi di analisi adottati si basano su una anacronistica fiducia nel mercato.
Le tre caratteristiche sono ovviamente connesse. Nel caso del TTIP si aggiunge ad esse una quarta, simpatica caratteristica:
4) l’impianto del progetto è intrinsecamente contraddittorio con il progetto europeo.
Vediamo un po’ perché.
Vantaggi irrisori Cominciamo dal primo punto. Come ricorderete, One market, one money quantificava il riparmio di costi di transazione (commissioni su cambi) determinato dall’Unione monetaria in uno 0.4% del Pil, che si sarebbe evidentemente verificato una tantum. Voglio cioè dire che in un singolo anno l’abolizione di questi costi avrebbe fatto crescere il Pil dello 0.4% in più. Ma una volta aboliti i costi, i costi non ci sarebbero più stati (per definizione), e quindi già dall’anno successivo non si sarebbero avuti ulteriori effetti. Ve lo spiego in un altro modo: nell’anno dell’introduzione della moneta unica avremmo avuto 0.4 punti percentuali di crescita in più, negli anni successivi no. Chiaro?
Ovviamente Eichengreen ci si fece una bella risata sopra: “Ma come vi viene in mente di affrontare un progetto così incerto a fronte di un beneficio così irrisorio?”. Ma sse sa, signora mia, la ggente so tanto tanto ‘nvidiosi, gli americani c’hanno paura che je rubbamo er monopolio de ‘a moneta…

(discorsi da comare che oggi si sentono solo in certi seminari…)
Oggi non va tanto meglio. Lo studio leader per la valutazione dei benefici economici del TTIP è quello del CEPR (e come ti sbagli): Reducing Transatlantic Barriers for Trade and Investment. Come nota Jere, le conclusioni di questo studio sono presentate dalla Commissione come fatti, e allora, da bravi europei, facciamo così anche noi. La Table 2 dello studio di Jere riporta una valutazione comparativa dell’impatto sul Pil europeo nel 2027 (fra 13 anni). Il CEPR (che verosimilmente è quello che ha preso più soldi dalla Commissione) è il più ottimista. In caso di realizzazione di una “full FTA” (Free Trade Area, zona di libero scambio, con pieno abbattimento delle barriere interne, ma mantenimento di barriere tariffarie differenziate verso i paesi terzi – cioè gli Usa potrebbero adottare verso la Cina dazi diversi dall’Europa, in pratica), bene, in questo caso estremamente favorevole, il beneficio sarebbe immenso: lo 0.48% in più del Pil spalmato su 13 anni (cioè un aumento del tasso di crescita medio europeo dello 0.03% l’anno circa)!
Dice: ma che mme stai a pijà per culo? No, no, sto leggendo la Table 16 a p. 46 dello studio del CEPR. Quindi, pensate, se adottassimo il TTIP subito, con un colpo di bacchetta magica, l’anno prossimo la crescita europea sarebbe non del previsto 1.35%, ma, udite udite, dell’1.38%.
Sono i dettagli a fare la delizia dell’intenditore, e questi dettagli potete leggerli solo qui!
Ora, per carità, io capisco di non poter impedire alla maggior parte di voi di adottare toni barricaderi e piazzaleloretisti (plateale il caso di Alberto49, che comincia a farmeli girare: ma non glielo spiego perché ho capito che non può capirlo). Quindi ragliare “multinazzzzionali bbbbrutte, lobby cattive, attentato alla costituzzzzione”, per poi andare all’osteria a farsi un quartino di bianco, è, come dire, la soluzione naturale che si presenta a molti di voi, e, fra l’altro, è un approccio giustificatissimo: dietro questo autentico attentato alla nostra costituzione c’è in effetti il potere di lobbing delle multinazionali, che di fatto agiscono nel loro, certo non nel nostro interesse.
Ma che sorpresa, eh?
A me però, invece di questo segreto di Pulcinella (che strano! I ricchi e potenti comandano nel loro interesse e comprano i politici per farsi i fatti propri! Chi lo avrebbe mai detto?) sembra molto più sorprendente, divertente e dirompente andare a leggere sui documenti ufficiali in base a quali pretesi vantaggi questo attentato ai nostri diritti viene perpetrato. Ci stanno vendendo per una cosa che dal punto di vista statistico è del tutto insignificante. A questo punto chi vuole piazzaleloreteggiare alzerà i toni, sbraiterà, si raccoglierà sotto la bandiera della rivolta, cederà al demone del qualcosismo (“dobbiamo fare qualcosa”), malattia senile del qualunquismo.
Chi invece vuole vincere una battaglia di democrazia andrà avanti con la lettura e mi aiuterà a portare questo dibattito nelle sedi opportune (cosa che, occorre saperlo, non è gratis).
Sintesi: per la seconda volta ci stanno proponendo un progetto che comporta rischi notevoli promettendo un beneficio che perfino ricercatori in conflitto di interessi e distorti in favore del progetto (perché pagati da chi lo propugna) quantificano come irrisorio.
I potenziali svantaggi non vengono quantificati Veniamo al secondo punto (che poi è connesso al terzo): i potenziali svantaggi non vengono quantificati (punto 2) anche e soprattutto perché l’impianto analitico utilizzato per verificare i vantaggi nega che esistano gli svantaggi, e lo fa sempre per il solito motivo: perché si basa su una cieca fiducia nel mercato (punto 3).
Del caso di One market, one money abbiamo già parlato: l’idea era che non ci sarebbero state crisi finanziarie perché i mercati finanziari non avrebbero potuto sbagliare.
Nel caso delle valutazioni del TTIP, la fiducia nel mercato si traduce nel fatto che il modello analitico utilizzato per valutare il progetto è un cosiddetto modello CGE (Computable General Equilibrium). Due fra i quattro studi che Jere analizza utilizzano proprio lo stesso modello CGE, il GTAP. Il punto è che questi modelli sono basati sul paradigma neoclassico, per cui l’offerta crea la propria domanda, ovvero, in altri termini:
1) tutti i mercati sono riportati perennemente in equilibrio (a meno di frizioni temporanee) dall’aggiustamento dei prezzi relativi, e quindi:
2) tutta la produzione offerta viene anche domandata, e quindi:
2.a) il Pil è determinato da quanto si produce, non da quanto si compra, e 2.b) non c’è disoccupazione.
Abbiamo parlato di alcune implicazioni di questo approccio qui. Ora, nel caso che ci interessa, Jere fa notare che il principale limite di questi modelli consiste nel meccanismo di adattamento alle modifiche normative da essi ipotizzato. Una liberalizzazione del commercio espone alla concorrenza internazionale settori finora protetti, e l’idea è quella darwinista che così i migliori sopravviveranno, e i peggiori andranno a fare altro. I settori più competitivi delle singole economie, quelli che hanno un vantaggio comparato, assorbiranno in tal modo le risorse che si rendono libere negli altri settori, con beneficio di tutti.

Ad esempio: se in Italia la siderurgica non è competitiva, ma l’agroalimentare sì, le acciaierie chiudono e gli operai vanno a lavorare la terra. Facile, no? Ma non ditelo agli operai dell’AST…
Ci sono però alcuni problemini evidenziati da Jere:
1) Intanto, perché questo non produca disoccupazione (e quindi spreco di risorse) a livello aggregato, occorre che i settori competitivi si espandano abbastanza da accogliere tutte le risorse (umane e altre) lasciate libere dai settori “sconfitti” dal mercato;
2) inoltre, le risorse di cui trattasi (che poi sono persone) devono essere molto poliedriche! Il modello presuppone, nelle parole di Jere, che un operaio di una catena di montaggio possa riciclarsi istantaneamente come dipendente di una software house (purché sia disposto ad accettare un salario sufficientemente basso).
3) Qui subentra un terzo problemino, che ora comincia ad essere chiaro a tutti. Il meccanismo di aggiustamento basato sulla flessibilità dei salari al ribasso conduce fatalmente a crisi di domanda. Ovviamente un modello nel quale si rappresenta solo l’offerta di questo aspetto non tiene conto. In un modello simile ci sarà sempre piena occupazione: sarà la flessibilità verso il basso del salario a indurre l’imprenditore ad assumere. Il problema, però, è che questo tipo di modello non considera il fatto che i “costi” che la riforma degli scambi internazionali spinge a tagliare (per diventare più competitivi) sono anche i redditi che sostengono la domanda aggregata di beni.
Ci sono poi problemini “minori” (come l’effetto Daverio-Zingales: maggiore esposizione a shock idiosincratici), ma quelli li lasciamo per dopo. Qui occupiamoci degli effetti sull’occupazione.

Lo studio del CEPR è commovente: andate a pagina 71:
“It should be stressed that the model is a long-run model, where sources of employment and unemployment are “structural” (rather than cyclical). In this sense, changes in labour demand are captured through wage changes (in this case rising wages). As wages increase in the experiments, this means a rising demand for labour, so that under a flexible labour supply specification, employment would increase instead.”
Ovvero: la relazione fra domanda e occupazione (gli effetti ciclici) non ci interessa – il che, considerando che grazie all’euro la recessione durerà una decina di anni, qualche dubbio lo fa sorgere; le variazioni della domanda di lavoro sono segnalate solo da quelle del costo del lavoro: se i salari aumentano, significa che c’è più domanda di lavoro da parte delle imprese, e quindi più occupazione. E quindi? E quindi l’impatto sulla disoccupazione non viene nemmeno misurato, perché la disoccupazione c’è se la domanda di lavoro (da parte delle imprese) è inferiore all’offerta (da parte delle famiglie), e tutto quello che il modello misura non è quanti posti di lavoro verranno creati o distrutti dal TTIP, ma come la forza lavoro (che si suppone sarà tutta occupata) verrà riallocata da un settore all’altro, considerando separatamente gli effetti per gli “skilled” (qualificati) e i “non skilled” (non qualificati). Quindi, ad esempio, la Table 34 dello studio ci dice che nell’UE la quota di lavoratori “skilled” allocati nell’agricoltura aumenterà dello 0.07%, ma non ci dice quanti nuovi posti di lavoro ci saranno in agricoltura.
E va be’…
Qui i problemi sono due. Il primo ve l’ho detto: di posti di lavoro si preferisce non parlarne, et pour cause. Il meccanismo del modello, per i tre punti sopra esposti, può considerare solo effetti riallocativi, sotto l’ipotesi estremamente eroica che la riconversione di un operaio siderurgico in un dentista, o quella di un parrucchiere in un progettista aerospaziale sia istantanea e senza costi. L’altro aspetto è che la stima dei potenziali benefici in termini di salari (l’idea che i salari crescerebbero) è basata sull’ipotesi che la distribuzione del reddito rimanga costante. Come nota Jere, il CEPR prevede che nel 2027 la famiglia europea media guadagni 545 euro in più all’anno (45 euro in più al mese!) grazie al TTIP, ma questo, ovviamente, se la distribuzione del reddito rimane invariata, perché se invece la quota salari continua a scendere, il maggior Pil andrà ai profitti, non ai salari, e non tutte le famiglie beneficeranno in ugual misura dei mirabolanti incrementi di cui sopra (lo 0.48%).
La vera chicca Ma concludiamo con la vera chicca. Gli effetti su Pil e redditi sono irrisori, perché sono irrisori, secondo lo stesso CEPR (cioè secondo la commissione) gli effetti sul commercio! Il commercio bilaterale crescerebbe tantissimissimo (quante volte abbiamo sentito questa storia), ma siccome crescerebbero sia le esportazioni che le importazioni, l’impatto netto non sarebbe così rilevante. Le esportazioni europee extra-UE nel 2027 in presenza di TTIP sarebbero del 5.9% superiori a quanto si avrebbe in assenza di TTIP. Il risultato di questa bella storia è che in effetti il TTIP disintegrerebbe l’Europa, nel senso di ridurre il commercio intra-zona (vedi la Table 24 dello studio CEPR). Insomma: con il TTIP gli europei commercerebbero di meno fra loro, e di più con gli Stati Uniti.
Ora, come ci siamo detti più volte, il beneficio di creare un’Unione economica è quello di avere un grande mercato che permetta di assorbire shock esterni: se gli Stati Uniti vanno per aria, la caduta della loro domanda viene compensata dal fatto che il grande mercato unico europeo in teoria sostiene l’acquisto dei beni europei. In pratica no, perché l’euro condanna a politiche di deflazione competitiva, come vi ho spiegato, ma almeno in teoria…
Con il TTIP questo beneficio teorico verrebbe ulteriormente compromesso: saremmo più legati agli Usa, e quindi più esposti agli shock che da essi provengono, pur essendo ugualmente privi di strumenti di politica fiscale, monetaria e valutaria per reagire ad essi. Come nota Jere, un esito simile non lascia tranquilli.
Io mi limito a ribadire quello che abbiamo più volte osservato: i difensori dell’euro e di questa Europa sono costretti, fatalmente, a stuprare la logica. Tutto quello che fanno contraddice platealmente tutto quello che dicono. Vogliono più Europa, e firmano dietro le nostre spalle un trattato che disintegrerà l’Europa prima commercialmente, e poi macroeconomicamente, esponendoci a qualsiasi errore di gestione dell’economia statunitense (e non è che ultimamente ce ne sian stati pochi…).

Una valutazione indipendente Ovviamente non è necessario valutare l’impatto di un trattato commerciale con modelli di equilibrio generale. Si possono anche usare modelli basati sulla sintesi neoclassica, in cui si considerano le interazioni fra domanda e offerta (come avviene nel modello di a/simmetrie e nella maggior parte dei modelli utilizzati da banche centrali e enti di ricerca: ce l’ha ricordato il prof. Lippi a Pescara).
Nel suo working paper Jere fa questo lavoro, e lo fa, da bravo europeo, prendendo per buoni i risultati dello studio CEPR, cioè ipotizzando che il volume del commercio si sviluppi, in seguito al TTIP, secondo quanto prevedono gli studi prezzolati finanziati dalla Commissione. Cosa cambia, allora? Cambia il fatto che usando un modello keynesiano:
1) si considerano gli impatti della variazione del commercio sulla domanda aggregata; 2) si considerano gli effetti di trade diversion, cioè il fatto che la maggiore integrazione fra Europa e Stati Uniti ha effetti sulle relazioni con i paesi terzi; 3) si considerano gli impatti su domanda di lavoro, salari reali e occupazione.
E che succede, se si tiene conto di queste cose?
Lo vedete nella Table 4 dello studio di Jere. Per la maggior parte dei paesi europei il TTIP comporterebbe un peggioramento del saldo delle partite correnti, verosimilmente perché a causa della stagnazione della domanda interna (cioè dei bassi redditi) gli europei si rivolgerebbero sempre di più a beni a basso valore aggiunto, nei quali sono meno competitivi: meno golf di Cucinelli, più magliette di cotone cinesi (importate via Stati Uniti, va da sé). Risultato: un peso ulteriore sulla bilancia dei pagamenti, che per i paesi del Nord sarebbe più grave che per noi – che già siamo stesi. Il tasso di crescita dell’economia d’altra parte diminuirebbe (com’è ovvio, dato il calo della domanda estera netta), e l’Europa sperimenterebbe una perdita di circa 600000 posti di lavoro. Non è una cosa enorme, considerando che la nostra popolazione attiva è di oltre 240 milioni, ma sarebbe meglio farne a meno, soprattutto perché i redditi di chi il lavoro lo conserverebbe diminuirebbero (il modello delle Nazioni Unite prevede in Italia una diminuzione di 661 euro per occupato, anziché un aumento di 545 per famiglia), e con essi la raccolta fiscale, con impatti negativi sulla sostenibilità dei conti pubblici.
Per carità, io sono di parte. Jere mi sta simpatico e l’Europa mi sta sui coglioni, però qui stiamo parlando di analisi condotte con un modello delle Nazioni Unite, e basato su ipotesi lievemente meno ideologiche di quelle adottate dall’oste Commissione Europea per valutare il vino TTIP.
Se a questo aggiungiamo il fatto che la storia che avremmo lavorato un giorno in meno ecc. ce la siamo già sentita dire, ecco che qualche motivo di allarme sorge, e un’analisi economica ci aiuta a motivarlo in termini oggettivi, quindi dialetticamente più efficaci del piazzaleloretismo e del window flagging.

Perché? E allora chiediamoci perché? Perché i nostri governanti ci stanno consegnando a questo progetto che ha benefici irrisori, costi potenzialmente elevati, ed è contraddittorio con la retorica dell’integrazione europea.
E la risposta è semplice: perché l’Unione Economica e Monetaria, che ci viene venduta come il momento più alto di realizzazione della nostra identità europea, di un nostro comune progetto europeo, in realtà è il momento più infimo del nostro asservimento all’ideologia e agli interessi statunitensi. Ne ho parlato tante volte, non ci ritorno, ma quello che va capito è il senso complessivo dell’operazione, che secondo me è questo: gli Usa hanno bisogno di un mercato di sbocco perché, da potenza declinante, stanno perdendo potere di signoraggio sui mercati internazionali. Gli sviluppi delle relazioni bilaterali fra i BRICS, e in particolare la dedollarizzazione degli scambi fra Cina e Russia, se dovessero generalizzarsi, significherebbero per gli Stati Uniti la fine del periodo dello “stampa (dollari) e compra (ovunque nel mondo)”. Il “privilegio esorbitante”, come lo chiamava Valery Giscard d’Estaing, verrebbe meno in un mondo nel quale il dollaro non fosse l’unico e solo strumento di regolazione delle transazioni sui mercati internazionali. A questo punto gli Stati Uniti non potrebbero permettersi più di essere in deficit strutturale netto verso l’estero. Puoi essere “acquirente di ultima istanza” se stampi a casa tua la moneta nella quale acquisti. Quando le cose non vanno più esattamente così, ti conviene avere una posizione equilibrata negli scambi con l’estero, altrimenti le cose si mettono male. Il +1% di esportazioni nette che il TTIP potrebbe arrecare agli Stati Uniti andrebbe proprio nel senso di ridurre il loro deficit (a costo di un aumento del nostro). L’Europa diventerebbe la periferia, in una nuova edizione del romanzo di centro e periferia, da voi tanto amato, dove gli Usa, chiedendoci l’Ani, ci inonderebbero della loro liquidità (con la quale il resto del mondo progressivamente avrebbe iniziato a nettarsi le terga), allo scopo di farci acquistare i loro simpatici bistecconi transgenici.
Sappiamo tutti quali siano gli incentivi che le élite periferiche traggono dal vendere i propri subalterni alle élite del centro, quindi di cosa ci stupiamo? Direi di nulla: BAU! Non è un cane: vuol dire business as usual.

E naturalmente qui sento i ragli dei piddini renziani (ormai tocca distinguere): “eh, ma l’euro ci aiuterebbe a difenderci!”.
No!
Noooo!
Nooooooooooooo!
Le cose stanno esattamente al contrario, e ancora una volta tutto questo ci è stato detto, e detto in faccia, e detto in sedi autorevoli. L’euro non ci aiuta a difenderci nemmeno un po’, e per due motivi ben evidenti. Il primo è che, come ormai sarebbe futile negare, è causa della nostra crisi, e quindi, banalmente, ci costringe ad affrontare in condizioni di debolezza qualsiasi negoziato internazionale. Il secondo è che nell’ottica statunitense l’euro è il primo passo verso la creazione di una moneta unica transatlantica, e questa non è una novità. Mundell ne parla da qualche anno, per capirci. E ora che sappiamo quali benefici ci abbia portato la moneta unica europea, e prima ancora quella italiana, siamo in grado di apprezzare quali e quanti benefici ci apporterebbe quella transatlantica.

Concludendo: nell’affrontare un tema così complesso sono io il primo a segnalarvi che l’ottica economica è necessariamente ristretta. Ma sarete d’accordo con me che aiuta a mettere a fuoco i probemi, no? Ricordatevi questo numero: +0.48% del Pil nel 2014.

Va bene, non siamo Gesù Cristo: ma lui, almeno, fu venduto per trenta denari…

(a proposito: Giuda e Eichmann hanno una cosa in comune, salvo errore…)

tratto da: (clicca qui)

 

Proposta ragionevole; ma chiedere all’ arrogante Merkel di usare la testa sarebbe come chiedere ad un sasso di imparare la chimica….

 

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martedì 18 novembre 2014
BERLINO – Il presidente del Forum russo-tedesco, Matthias Platzeck (dell’Spd, alleato di governo di Angela Merkel), sostiene che la comunita’ internazionale dovrebbe riconoscere l’annessione della Crimea da parte della Russia.
“L’annessione della Crimea dev’essere regolata dal diritto internazionale, affinche’ possa diventare accettabile per tutti”, ha dichiarato l’ex governatore del Brandeburgo.
“Per conseguire questo obiettivo esistono diverse possibilita’: contributi finanziari, una replica del referendum sotto il controllo dell’Osce e altre ancora. Kiev e Mosca devono trovare un accordo”, ha dichiarato Platzeck, secondo cui e’ poco probabile che le regioni controllate dai filo-russi nell’Est dell’Ucraina tornino a far parte dello Stato ucraino: “Al momento non e’ immaginabile che Donetsk e Luhansk, dopo tutto quello che hanno subito, tornino semplicemente a far parte dello Stato ucraino”, ha aggiunto l’autorevole esponente dell’Spd.
Platzeck chiede quindi all’Occidente di prendere atto delle azioni della Russia. “Il piu’ saggio deve essere anche il piu’ ragionevole”, ha commentato il leader socialdemocratico.
“Cosa accadra’ altrimenti, quando Putin se ne andra’? Il successore non sarebbe sicuramente un europeista, semmai un presidente ancor piu’ nazionalista. Ma se la Russia, quale seconda potenza nucleare del mondo, diventasse politicamente instabile, le conseguenze sarebbero imponderabili. Tutto questo sarebbe estremamente pericoloso”, ha ammonito Platzeck.
“Dobbiamo trovare una soluzione che non faccia uscire Putin da perdente”. Ma nel fine settimana il governo di Berlino ha assunto una linea di assoluta durezza nei confronti della Russia: il cancelliere Angela Merkel (Cdu) ha messo in guardia da un’espansione del conflitto a macchia d’olio, mettendosi cosi’ in aperto contrasto con il presidente russo. “Dopo il terrore della Seconda Guerra Mondiale e la fine della Guerra Fredda, il comportamento della Russia sta mettendo a rischio l’ordinamento europeo basato sulla pace”, ha dichiarato la Merkel.
Tuttavia, questa nuova posizione politica espressa dall’Spd riapre i giochi in Germania: fino a che punto la signora Merkel è disponibile a tirare la corda politica interna? Sulla crisi con la Russia epicentrata sulla “questione Crimea” l’esecutivo Merkel potrebbe anche cadere.

tratto da: (clicca qui)

 

La comunicazione è usata sempre più a fini strategici e pochi giornalisti lo capiscono e ancor meno lo denunciano. Chi lo capisce, non si adegua al volere delle lobbies e si ostina a fare il proprio lavoro di inchiesta liberamente, viene emarginato, intimidito, escluso…

 

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di MarcelloFoa

C’era una volta la stampa americana. E in parte esiste ancora, ma soprattutto nei film di Hollywood che continuano ad esaltare il coraggio delle grandi testate o di singoli giornalisti con toni romantici e a volte epici. Che fanno cassetta, ma non rispecchiano la realtà. Dai tempi del Watergate i media americani hanno visto erodere buona parte della propria credibilità, sotto i colpi di una serie di inefficienze e talvolta di scandali. Dai giornalisti pluripremiati che inventavano storie di sana pianta, all’incapacità cronica e talvolta compiacente di contrastare le tecniche degli spin doctor per orientare i media, l’elenco è lungo e tutt’altro che lusinghiero.
Ora la Attkisson, grande della star Cbs, lancia un j’accuse pesante nel suo ultimo libro “Stonewall“. In parte non sorprendente: che la maggior parte dei giornalisti americani siano liberal ovvero di sinistra e che riservino a Obama un atteggiamento privilegiato, fazioso quasi fino al servilismo, era già stato denunciato da alcuni studiosi.
Dove invece la Attkisson squarcia davvero un velo è sulla parte invisibile della gestione dei grandi media americani, sulle connessioni invisibili con l’establishment. Secondo la Attkisson, la decisioni su cosa pubblicare e cosa no, vengono prese da una ristretta cerchia di dirigenti di New York, legati all’establishment che ragiona e decide secondo criteri imperscrutabili e prevaricatori. « Ci chiedono di creare una realtà che coincida con quello che fa comodo credere a loro », denuncia la star della Cbs. E chi non si adegua, chi si ostina a fare il proprio lavoro di inchiesta liberamente, intepretando il ruolo di cane da guardia, viene emarginato, intimidito, escluso.
E’ quel che è successo alla Attkisson non appena ha toccato temi sgraditi alla Casa Bianca. Messa subito all’indice, con corollari inaccettabili in democrazia , come il sistematico e impunito hackeraggio del suo computer da parte dei servizi segreti. Roba da Unione Sovietica, non da libera America.
Il quadro che emerge è quella di un mondo mediatico che tende ad assecondare le volontà dell’establishment anziché monitorarlo e sfidarlo. Il potere delle lobby è quasi assoluto eppure quasi mai descritto e men che meno denunciato dalla stampa. Le reti che contano a Washington non sono mai rivelate, certi temi scomodi e davvero importanti per la società Usa al più sfiorati, la ricostruzione dei grandi fatti della politica internazionale sempre monocromatca e conformista. Le penne che non si adeguano vivono sul web ma non trovano spazio in tv o sulle grandi testate. La Attkisson non è sola. Il più grande giornalista d’inchiesta, Seymour Hersch, da tempo, non a caso, è fuori dal giro dei giornaloni. Opinionisti di calibro ma fuori dagli schemi come Paul Craig Roberts, ex assistente di Reagan, vengono marginalizzati.
L’impressione è che i mali della stampa si inseriscano in un contesto più ampio, nel quale la comunicazione è usata sempre più a fini strategici, con modalità opache. Oggi sappiamo che le rivoluzioni democratiche in Egitto, Tunisia e Libia sono state in realtà generosamente ispirate da Washington, così come la rivolta di Piazza Maidan a Kiev, dove, pur di sottrarre l’Ucraina all’influenza russa, l’Occidente ha sdoganato gruppi paramilitari neonazisti. Cinismo della politica internazionale, certo; ma oggi le guerre si combattono non solo con le armi, anche, talvolta soprattutto, usando tecniche asimmetriche come l’influenza mediatica.
Singolari, ad esempio, sono gli scoop del Consorzio internazionale del giornalismo, che l’anno scorso ha attaccato le piazze offshore e la scorsa settimana ha svelato le pratiche fiscali in Lussemburgo, in entrambi i casi avendo accesso a una mole impressionante di documenti riservatissimi, di cui il Consorzio, ovviamente, non rivela la fonte. Chi può aver violato così massicciamente la riservatezza di grandi gruppi o di archivi di Stato? Non certo un manipolo di volenterosi cronisti… Qualcuno ovviamente li ha imbeccati fornendo file solitamente inaccessibili. Sottratti da chi ? A quali fini ? E perché ora ? Queste sono le domande che la stampa libera dovrebbe porsi, ma che in realtà non formula mai. Semmai fa da cassa di risonanza, con effetti pervasivi, sovente devastanti e la Svizzera lo sa bene. La pressione mediatica è stata decisiva per indurre Berna alla resa sul segreto bancario, benché le premesse giuridiche fossero infondate, come è stato dimostrato dall’assoluzione del banchiere Weil.
Ma questi sono i metodi che vengono usati per vincere le guerre invisibili. E che pochi gionalisti capiscono e ancor meno denunciano.

tratto da: (clicca qui)

 

 

Tutto da copione. C’era solo da chiedersi quando sarebbe partito l’attacco del terrorista Presidente  afro-americano nei confronti dell’Ungheria del grande Orban……

 

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venerdì 14 novembre 2014
E’ solo “carta straccia”, un documento che avrebbe potuto essere scritto dall’opposizione. Viktor Orban, il primo ministro ungherese, ha liquidato così il documento col quale gli Stati uniti hanno tolto il visto ad alcuni funzionari magiari, tra i quali il capo dell’Ufficio tasse e dogane, nell’ambito di un’inchiesta per corruzione. Il provvedimento di Washington sta avvelenando i rapporti magiaro-americani.
“Abbiamo ricevuto un documento che è un accrocco di accuse che abbiamo sentito pronunciare dai partiti d’opposizione negli ultimi quattro anni. Non è altro che carta straccia. Se non fosse in inglese, avrei pensato che l’ha scritto un partito d’opposizione”, ha detto Orban rispondendo all’intervista che ogni due settimane concede alla radio pubblica MR1.
“Io – ha aggiunto – guardo a questo documento come se qualcuno volesse trascinarci in un contesto di elezioni politiche”. E comunque l’inchiesta americana è “solo tempo perso”.
Nelle ultime settimane Washington è partita all’offensiva del governo Orban sul tema della corruzione. Gli Usa, come diverse cancellerie europee, hanno espresso preoccupazione per il “piglio autoritario” del governo di destra magiaro, specialmente perchè ha costretto le banche straniere a convertire i mutui-casa in fiorini in modo da impedire speculazioni sulla pelle dei cittadini ungheresi derivate dal gioco dei cambi e dei tassi d’interesse in euro, dollari e franchi svizzeri. Non è proprio piaciuto, agli americani che hanno forti interessi nelle banche oggetto della disposizione del governo Orban.
Ma l’America è anche irritata per il fatto che Budapest in Europa è capofila della “linea morbida” nei confronti della Russia, soggetta a sanzioni per la vicenda ucraina, e ha dimostrato questa poca adesione con atti concreti.
L’ambasciatore Usa Budapest André Goodfriend nelle settimane scorse aveva annunciato la consegna di prove documentali di casi di corruzione, accusando il governo magiaro di aver tirato i remi in barca nella lotta alla corruzione. Accusa, questa, sdegnosamente respinta da Orban.
I nomi dei funzionari coinvolti erano stati mantenuti segreti, finché il capo dell’Ufficio imposte e dogane (Nav), Ildiko Vida, non ha rivelato di essere anche lei nella lista delle personalità a cui il visto è stato ritirato. Le “prove” fornite dall’ammistrazione Obama per altro non sono state offerte alla stampa internazionale. Curioso, se fossero davvero prove.
La verità è che è in corso un’aggressione a Orban e al suo goverNo da parte degli Stati Uniti, dopo che la Ue ha perso su tutti i fronti contro l’Ungheria, libera e indipendente, orgogliosa della sua valuta sovrana, della sua economia in fortissima crescita anche nel 2015 e dell’occupazione, ai massimi storici.

tratto da: (clicca qui)