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Lentamente, ma inesorabilmente, l’Europa sta iniziando a capire che è lei stessa a soffrire maggiormente del blocco economico e finanziario occidentale verso la Russia. E mentre la Germania è stata la prima a riconoscerlo verso la fine del 2014, quando la sua economia ha subito un forte calo portandola sull’orlo di una recessione, oggi anche altri paesi ci stanno arrivando. Il caso in questione: l’ex capo della Commissione europea, ed ex primo ministro Italiano, Romano Prodi, che al quotidiano Messaggero avrebbe detto che “Un’economia russa debole è molto svantaggiosa per l’Italia”.
Ecco maggiori dettagli sulla dichiarazione di Prodi:

 

“La riduzione dei prezzi nei mercati energetici internazionali ha degli aspetti positivi per i consumatori italiani, che pagano meno per il carburante, ma sarà un effetto di breve durata. Nel lungo termine, tuttavia, una situazione economica più debole nei paesi produttori di risorse energetiche, causata dal calo dei prezzi del petrolio e del gas, per lo più in Russia, è estremamente svantaggiosa per l’Italia” ha detto.

“Un calo dei prezzi del petrolio e del gas, combinato con le sanzioni indotte dalla crisi in Ucraina, farà scendere il PIL Russo del 5% annuo, causando, di conseguenza, una riduzione delle esportazioni italiane del 50%” ha detto Prodi.
“A parte l’inutilità dell’urgenza di queste sanzioni, bisogna evidenziare un fatto importante: a prescindere dal tasso di cambio del rublo verso il dollaro, che è quasi della metà, le esportazioni Americane verso la Russia stanno aumentando, mentre quelle dall’Europa si stanno riducendo.”

In altre parole, pur lentamente, il mondo sta iniziando a cogliere la linea di fondo; non è l’esposizione finanziaria verso la Russia o la minaccia di contagio finanziario nel caso che la Russia cada in una recessione ancora più grave o in qualcosa di peggiore: si tratta di qualcosa di molto più semplice che arrecherà un grosso danno ai paesi europei. La mancanza di scambi commerciali. Poiché, mentre le banche centrali possono monetizzare tutto – provocando una “bolla” speculativa senza precedenti che se non altro nell’immediato fa aumentare gli investimenti e la fiducia dei consumatori – non possono invece “stampare” nessun commercio – da sempre l’unico grande motore di crescita di un mondo ormai globalizzato in cui le banche centrali riescono a monetizzare ogni anno oltre 1 trilione di $ in obbligazioni per mascherare il fatto che ci troviamo in uno stato di profonda depressione mondiale.

Ecco perché abbiamo trovato molto interessante questo articolo di ieri del Deutsche Wirtschafts Nachrichten che arriva dritto al punto. La Russia ha una proposta tutt’altro che modesta per l’Europa: interrompete gli scambi con gli Stati Uniti, le cui misure restrittive contro la Russia sono costate all’Europa un altro anno di decrescita economica, ed entrate nell’Unione Economica Euroasiatica!

Dalla fonte:
La Russia ha lanciato una sorprendente proposta per superare le tensioni con l’Unione europea: l’UE dovrebbe abbandonare l’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti TTIP ed entrare invece in una partnership con la neo-costituita Unione Eurasiatica. Una zona di libero scambio con i vicini avrebbe più senso di un accordo con gli Stati Uniti.

Sicuramente lo avrebbe, ma poi come potrebbe l’Europa fingere indignazione quando si scopre che la NSA avrà nuovamente spiato i suoi “più stretti partner commerciali?”. Alcuni altri dettagli sulla proposta della Russia dal EUobserver:
Vladimir Chizhov ha detto a EUobserver: “La nostra idea è di dare il via al più presto a contatti ufficiali tra UE e EAEU. Il cancelliere (Tedesco) Angela Merkel lo accennò poco tempo fa. E le sanzioni europee contro la Russia non saranno un impedimento”.

“Credo che il buon senso ci suggerisce di esplorare la possibilità di creare uno spazio economico comune nella regione Euroasiatica, compresi i paesi principali della Partnership Orientale (una politica dell’UE basata su legami più stretti con Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Georgia, Moldavia e Ucraina)”.
“Potremmo pensare a una zona di libero scambio tra tutte le parti interessate in Eurasia”.
Ha definito il nuovo blocco guidato dalla Russia come un partner migliore per l’Europa di quanto lo siano gli Stati Uniti, facendo una particolare allusione agli standard alimentari dell’industria alimentare statunitense.
“Pensate sia saggio sprecare così tante energie politiche per una zona di libero scambio con gli USA quando si hanno già al proprio fianco dei partner più semplici e più vicini geograficamente? E poi noi non diamo clorinato ai nostri polli”, ha detto l’Ambasciatore.
Il trattato che istituisce l’Unione Euroasiatica è entrato in vigore il 1°Gennaio del 2015, giovedì scorso.
Esso comprende Armenia, Bielorussia, Kazakistan e Russia, e in maggio prossimo aderirà anche il Kirghisistan.
Modellata sull’Unione Europea, la nuova Unione è governata da un organismo esecutivo con sede a Mosca, la Commissione Economica Euroasiatica, ed un organismo politico, il Consiglio Economico Euroasiatico Supremo, in cui i leader degli stati membri prendono decisioni all’unanimità.
L’Unione prevede la libera circolazione dei lavoratori e un unico mercato per le costruzioni, il commercio al dettaglio e il turismo. Nei prossimi dieci anni si prevede di istituire una corte di giustizia a Minsk, un organismo di sorveglianza finanziaria ad Astana e, possibilmente, di aprire uffici della Commissione Economica Euroasiatica ad Astana, Bishkek, Minsk e Yerevan.
L’Unione prevede anche di stabilire il libero movimento di capitali, beni e servizi, e di estendere il suo mercato unico ad altri quaranta settori, per primo il farmaceutico nel 2016.

E, in aggiunta: l’Unione Economica Euroasiatica, nuovo blocco commerciale di stati ex-sovietici, comprende da venerdì scorso quattro nazioni, dopo l’adesione formale dell’Armenia giunta un giorno dopo l’unione tra Russia, Bielorussia e Kazakistan.

Dunque, la palla a voi, Europei: sarà la terza recessione di fila (e dopo anche una quadrupla, vedi il Giappone), mentre la vostra banca centrale controllata da Goldman Sachs affonda sempre più le mani nelle tasche di quello che rimane della classe media, continuando a ripetere che quest’anno, per davvero, sarà l’anno della svolta, oppure l’Europa si renderà conto di averne avuto abbastanza e deciderà di cambiare la sua strategia commerciale virando da ovest (a proposito di TTIP, il ministro dell’agricoltura Tedesco ha appena detto che “Non possiamo salvare capra e cavoli” ” riferendosi al TTIP) e puntando verso est?
Tuttavia, se consideriamo quali sono i veri interessi rappresentati da quei burocrati non eletti che siedono a Bruxelles, non avremo molto sorprese.

tratto da: (clicca qui)

 

 

DECRETO N° 02-AG-2014 DEL 14 FEBBRAIO 2014

 

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di Giovanni Fez

Via Campesina: “Riprendiamoci la nostra sovranità alimentare

 

La Commissione Europea ha annunciato la sua decisione di ritirare la riforma del mercato sementiero, da più parti invocata affinché potesse essere contenuto lo strapotere delle multinazionali e reso possibile lo scambio dei semi per affrancare i contadini dalla schiavitù delle royalties. Ora si tratta di vedere cosa accadrà. Intanto l’associazione internazionale contadina La Via Campesina lancia i suoi “5 passi” per nutrire veramente il pianeta (altro che Expo 2015!) e rivendica la sovranità alimentare dei popoli.

La Commissione Europea ha annunciato al Parlamento europeo la sua decisione di ritirare la riforma della regolamentazione del mercato sementiero, cancellando di fatto le seppur timide aperture cui la Commissione precedente era stata costretta dalle pressioni dei movimenti per la sovranità alimentare e dai gruppi rappresentativi in agricoltura. Quelle aperture lasciavano sperare che finalmente la UE potesse prendere in considerazione norme e interventi a difesa della biodiversità e preservazione dei suoli, a difesa del diritto dei contadini allo scambio delle loro sementi, del diritto delle piccole aziende a commercializzare tutte le biodiversità disponibili senza dover essere costrette a registrarle nei cataloghi istituzionali e a difesa della possibilità di aprire quei cataloghi ai semi non “standardizzati”, sinonimo di maggiore ricchezza nutritiva dei cibi. Nulla di tutto ciò, tutto cancellato, la pressione delle lobby di interesse e delle multinazionali sementiere evidentemente è devastante.
Intanto l’associazione internazionale di contadini La Via Campesina rimarca la sua critica al sistema industriale di produzione del cibo, «causa principale dei cambiamenti climatici e responsabile del 50% delle emissioni di gas serra in atmosfera».

Eccoli i punti critici principali.

Deforestazione (15-18% delle emissioni). Prima che si cominci a coltivare in maniera intensiva, le ruspe e i bulldozer fanno il loro lavoro abbattendo le piante. Nel mondo, l’agricoltura industriale si sta spingendo nella savana, nelle foreste, nelle zone più vergini divorando una enorme quantità di terreno.

Agricolture e allevamento (11-15%). La maggior parte delle emissioni è conseguenza dell’uso di materie rime industriali, dai fertilizzanti chimici ai combustibili fossili per far funzionare i macchinari, oltre agli eccessi generati dagli allevamenti.

Trasporti (5-6%). L’industria alimentare è una sorta di agenzia di viaggi globale. I cereali per i mangimi animali magari vengono dall’Argentina e vanno ad alimentare i polli in Cile, che poi sono esportati in Cina per essere lavorati per poi andare negli Usa dove sono serviti da McDonald’s. La maggior arte del cibo prodotto a livello industriale percorre migliaia di chilometri prima di arrivare sulle nostre tavole. Il trasporto degli alimenti copre circa un quarto delle emissioni legate ai trasporti e il 5-6% delle emissioni globali.

Lavorazioni e packaging (8-10%). La trasformazione dei cibi in piatti pronti, alimenti confezionati, snack o bevande richiede un’enorme quantità di energia e genera gas serra.

Congelamento e vendita al dettaglio (2-4%). Dovunque arrivi il cibo industriale, là deve essere alimentata la catena del freddo e questo è responsabile del consumo del 15% di energia elettrica nel mondo. Inoltre i refrigeranti chimici sono responsabili di emissioni di gas serra.

Rifiuti (3-4%). L’industria alimentare scarta fino al 50% del cibo che produce durante tutta la catena di lavorazione e trasporto, i rifiuti vengono smaltiti in discariche o inceneritori.

La Via Campesina rivendica la sovranità alimentare dei popoli e indica 5 passi fondamentali per arrivarci. Eccoli.
1. Prendersi cura della terra.
L’equazione cibo/clima ha radici nella terra. La diffusione delle pratiche agricole industriali nell’ultimo secolo ha portato alla distruzione del 30-75% della materia organica sul suolo arabile e del 50% della materia organica nei pascoli. Ciò è responsabile di circa il 25-40% dell’eccesso di CO2 in atmosfera. Questa CO2 potrebbe essere riportata al suolo ripristinando le pratiche dell’agricoltura su piccola scala, quella portata avanti dai contadini per generazioni. Se fossero messe in pratiche le giuste politiche e le giuste pratiche in tutto il mondo, la materia organica nei suoli potrebbe essere riportata ad un livello pre-industriale già in 50 anni.

2. Agricoltura naturale, no alla chimica.
L’uso di sostanze chimiche nell’agricoltura industriale è aumentata in maniera esponenziale e continua ad aumentare. I suoli sono stati impoveriti e contaminati, sviluppando resistenza a pesticidi e insetticidi. Eppure ci sono contadini che mantengono le conoscenze di ciò che è giusto fare per evitare la chimica diversificando le colture, integrando coltivazioni e allevamenti animali, inserendo alberi, piante e vegetazione spontanea.

3. Limitare il trasporto dei cibi e concentrarsi sui cibi freschi e locali.
Da una prospettiva ambientale non ha alcun senso far girare il cibo per il mondo, mentre ne ha solo ai fini del business. Non ha senso disboscare le foreste per coltivare il cibo che poi verrà congelato e venduto nei supermercati all’altro capo del mondo, alimentando un sistema altamente inquinante. Occorre dunque orientare il consumo sui mercati locali e sui cibi freschi, stando lontani dalle carni a buon mercato e dai cibi confezionati.

4. Restituire la terra ai contadini e fermare le mega-piantagioni.
Negli ultimi 50 anni, 140 milioni di ettari sono stati utilizzati per quattro coltivazioni dominanti ed intensive: soia, olio di palma, olio di colza e zucchero di canna, con elevate emissioni di gas serra. I piccoli contadini oggi sono confinati in meno di un quarto delle terre coltivabili nel mondo eppure continuano a produrre la maggior parte del cibo (l’80% del cibo nei paesi non industrializzati). Perché l’agricoltura su piccola scala è più efficiente ed è la soluzione migliore per il pianeta.

5. Dimenticate le false soluzioni, concentratevi su ciò che funziona
Ormai si ammette che la questione agricola è centrale per i cambiamenti climatici. Eppure non ci sono politiche che sfidino il modello dominante dell’agricoltura e della distribuzione industriali, anzi: governi e multinazionali spingono per far passare false soluzioni. Per esempio, i grandi rischi legati agli organismi geneticamente modificati, la produzione di “biocarburanti” che sta contribuendo ancor più alla deforestazione e all’impoverimento dei suoli, continuano ad essere utilizzati i combustibili fossili, si continua a devastare le foreste e a cacciare le popolazioni indigene. Tutto ciò va contro la soluzione vera che può essere solo il passaggio da un sistema industriale di produzione del cibo a un sistema nelle mani dei piccoli agricoltori.

tratto da: (clicca qui)

2015.01.02 – La facile lezione della prima guerra mondiale

Posted by Presidenza on 2 Gennaio 2015
Posted in articoli 

I promotori dell’intervento umanitario lo presentano come l’inizio di una nuova era; ma nei fatti è la fine di una vecchia era. La più grande trasformazione sociale del ventesimo secolo è stata la decolonizzazione. Continua oggi nella creazione di un mondo veramente democratico e multipolare, in cui il sole sarà tramontato sull’impero USA, proprio come accadde per vecchi imperi europei.

 

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DI JEAN BRICMONT

 

“L’oceano dell’umana follia”

Ci sono almeno due cose più facili da iniziare che da finire: un amore e una Guerra. Nessuno di coloro che parteciparono alla I guerra mondiale si aspettava che durasse così a lungo o che avesse le conseguenze che ha avuto. Tutti gli imperi che hanno partecipato alla guerra sono stati distrutti, inclusi anche quello britannico e francese.
E non è tutto, una guerra conduce ad un’altra guerra. Il filosofo inglese Bertrand Russell ha osservato che la volontà delle monarchie europee di schiacciare la Rivoluzione Francese portò come esito a Napoleone; le guerre napoleoniche produssero il nazionalismo germanico che a sua volta condusse a Bismarck, alla sconfitta francese di Sédan ed all’annessione dell’Alsazia-Lorena.

Tutto questo diede forza al revanscismo francese che portò, dopo la prima guerra mondiale, al Trattato di Versailles, la cui iniquità diede un forte impulso al nazismo di Hitler. Russell si fermò qui, ma la storia continua. La sconfitta di Hitler portò alla guerra fredda ed alla nascita di Israele. La “vittoria” dell’occidente nella guerra fredda condusse al diffuso desiderio di schiacciare la Russia una volta per tutte. Quanto ad Israele, la sua creazione produsse un conflitto permanente e creò una situazione inestricabile nel Medio Oriente.
Come si può uscire da questa dialettica? Suggerirei l’idea di un pacifismo istituzionale. Non un pacifismo nel senso del rifiuto della violenza in qualunque circostanza, o come esortazione morale, ma nel senso della creazione di istituzioni che possano favorire il mantenimento della pace. Le Nazioni Unite e la loro Carta, almeno così come furono concepite, costituiscono probabilmente il migliore esempio di una tale istituzione.
Il punto di partenza delle Nazioni Unite era la volontà di salvare l’umanità dalla “piaga della guerra”, in seguito all’esperienza della seconda guerra mondiale. Questo obbiettivo doveva essere conseguito attraverso la difesa del principio della pari sovranità tra tutti gli stati, per impedire che le grandi potenze intervenissero militarmente contro le nazioni più deboli, a prescindere dal pretesto. Ma dal momento che non esiste una forza di polizia internazionale che faccia valere il diritto internazionale, esso può essere fatto rispettare soltanto attraverso un bilanciamento di potere e soprattutto attraverso la pressione dei cittadini dei diversi stati per costringere i propri governi ad aderire alle regole comuni.
Tuttavia il modo in cui la fine della Guerra fredda venne interpretata in occidente, come una vittoria unilaterale del Bene contro il Male, condusse ad una totale noncuranza del diritto internazionale e addirittura della cautela diplomatica in occidente. Fu una delle conseguenze dell’ideologia dei diritti umani e del diritto agli interventi militari umanitari, che fu sviluppata da influenti intellettuali occidentali a partire dalla metà degli anni ’70, spesso sostenitori di Israele, e che potrebbe sembrare incredibilmente aver dato ad Israele il record dei diritti umani.
Il “diritto” all’intervento umanitario è stato universalmente respinto dalla maggioranza dell’umanità, per esempio al Summit del Sud all’Avana nell’aprile 2000, o alla conferenza del Movimento dei Non Allineati a Kuala Lumpur nel febbraio 2003, appena prima dell’attacco USA all’Iraq, da cui uscì la seguente dichiarazione: “I Capi di Stato o di Governo hanno ribadito il rifiuto del Movimento dei Non Allineati del cosiddetto ‘diritto’ all’intervento umanitario, che non trova fondamento né nella Carta delle nazioni Unite, né nel diritto internazionale”, e “hanno inoltre rilevato similitudini tra la nuova espressione ‘responsabilità della protezione’ e ‘intervento umanitario’ ed hanno richiesto all’Ufficio di Coordinamento di esaminare attentamente e prendere in considerazione l’espressione ‘responsabilità della protezione’ e le sue implicazioni, sulla base dei principi di non-interferenza e non-intervento, nonché del rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità nazionale degli Stati.” Ma in occidente questo diritto di intervento è quasi unanimemente accettato.
Il motivo di queste contrastanti opinioni sta probabilmente nel fatto che il resto del mondo ha un ricordo molto diverso rispetto all’occidente dei più recenti interventi nelle questioni interne di altri stati.
L’intervento degli Stati Uniti è eterogeneo ma costante, e viola sistematicamente lo spirito, e spesso anche la lettera, della Carta delle Nazioni Unite. Nonostante le rivendicazioni di agire in nome di principi come libertà e democrazia, l’intervento statunitense ha ripetutamente comportato conseguenze disastrose: non solo i milioni di morti dovuti alle guerre dirette ed indirette, in Indocina, America Centrale, Sudafrica e Medio Oriente, ma anche le opportunità perdute, “l’uccisione della speranza” per centinaia di milioni di persone che avrebbero tratto beneficio dalle politiche sociali progressiste iniziate da personaggi come Arbenz in Guatemala, Goulart in Brasile, Allende in Cile, Lumumba in Congo, Mossadegh in Iran, i Sandinisti in Nicaragua, o Chavez in Venezuela, che sono stati sistematicamente rovesciati, deposti o assassinati con il pieno appoggio dell’occidente.
Ma non è tutto. Ogni aggressione compiuta dagli Stati Uniti provoca una reazione. Il dispiegamento di uno scudo anti-missile produce più missili, non meno.
Bombardare dei civili – sia deliberatamente, sia come “danno collaterale” – provoca più resistenza armata, non meno. Cercare di deporre o rovesciare dei governi produce più repressione interna, non meno. Incoraggiare le minoranze secessioniste dando loro l’impressione, spesso falsa, che l’unica Superpotenza verrà in loro aiuto in caso di repressione, porta a più violenza, odio e morte, non meno. Circondare una nazione con basi militari produce più spese per la difesa da parte di quella nazione, non meno. Il possesso di armi nucleari da parte di Israele incoraggia altri stati del Medio Oriente ad acquistare tali armi.
L’ideologia dell’intervento umanitario in realtà fa parte di una lunga storia degli atteggiamenti occidentali nei confronti del resto del mondo. Quando i colonialisti occidentali sbarcarono sulle coste dell’America, dell’Africa o dell’Asia orientale, venivano sconvolti da ciò che noi ora definiremmo violazioni dei diritti umani, e che loro chiamavano “usanze barbare” – sacrifici umani, cannibalismo, donne costrette a legarsi i piedi. Ripetutamente quell’indignazione, reale o simulata, è stata usata per giustificare o coprire i crimini delle potenze occidentali: il commercio degli schiavi, lo sterminio dei popoli indigeni ed il furto sistematico di terre e risorse. Questo atteggiamento di sincera indignazione è continuato fino ad oggi e sta alla base della pretesa che l’occidente ha “il diritto di intervenire” ed “il diritto di proteggere”, chiudendo al tempo stesso gli occhi di fronte a regimi oppressivi considerati “nostri amici”, ad una incessante militarizzazione e continue guerre, ed allo sfruttamento massiccio del lavoro e delle risorse.
L’occidente dovrebbe imparare dalla propria storia. Che cosa significherebbe in concreto?
Bene, innanzitutto, garantire il rigoroso rispetto del diritto internazionale da parte delle potenze occidentali, applicare le risoluzioni delle Nazioni Unite relative ad Israele, smantellare l’impero mondiale statunitense di basi militari, e anche la NATO, interrompere le minacce riguardo all’uso unilaterale della forza, revocare le sanzioni unilaterali, smettere con le interferenze negli affari interni di altri Stati, in particolare le operazioni di “promozione della democrazia”, le rivoluzioni “colorate” e la strumentalizzazione delle politiche delle minoranze. Questo doveroso rispetto per la sovranità nazionale significa che in ogni nazione la vera sovranità sta nelle mani del popolo di quello stato, il cui diritto a sostituire governi ingiusti non può essere usurpato da esterni presumibilmente bendisposti.
I fautori dell’intervento umanitario rivendicano che tale interventismo sia gestito dalla comunità internazionale. Ma ad oggi non c’è nulla che si possa definire una vera comunità internazionale. In realtà, niente può illustrare meglio l’ipocrisia dell’ideologia umanitaria quanto il contrasto tra la reazione occidentale alle richieste d’indipendenza del Kosovo e alla richiesta di autonomia dell’Ucraina dell’est. In entrambi i casi vi è il rifiuto di negoziare, ma in un caso con il totale appoggio all’indipendenza, e nell’altro caso con la totale opposizione all’autonomia.
I promotori dell’intervento umanitario lo presentano come l’inizio di una nuova era; ma nei fatti è la fine di una vecchia era. La più grande trasformazione sociale del ventesimo secolo è stata la decolonizzazione. Continua oggi nella creazione di un mondo veramente democratico e multipolare, in cui il sole sarà tramontato sull’impero USA, proprio come accadde per vecchi imperi europei.
Le opinioni qui espresse sono condivise da milioni di persone in “occidente”. Questo purtroppo non viene riportato nei nostri mezzi di comunicazione. Durante le recenti campagne isteriche anti russe, i nostri media sembrano aver completamente abbandonato lo spirito critico dell’Illuminismo che l’occidente pretende di possedere. L’ideologia dei diritti umani, che ci dipinge come i buoni contro i cattivi, presenta la caratteristica di tutte le fedi religiose, ed è particolarmente intrisa di fanatismo. Non dimentichiamo, tra tutte le critiche del secolarismo che ho ascoltato qui, che nella prima guerra mondiale tutte le parti in causa pretendevano di avere Dio al proprio fianco, benché, per quanto ne so, l’Onnipotente non fosse propenso a farci sapere da che parte stava. Forse era troppo occupato a sistemare in paradiso e in inferno le anime dei soldati morti invocando il suo nome. L’ideologia dei diritti umani ha sostituito le antiche fedi, ma funziona come una religione ed è la base di un nuovo nazionalismo, quello degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.
Alcuni pensano che tutta questa agitazione e bellicismo ideologico siano dovuti a calcoli economici razionali da parte di cinici profittatori. Io penso che questa interpretazione sia troppo ottimista e che ignori, per citare nuovamente Russell, “l’oceano dell’umana follia sul quale la fragile barca della ragione umana naviga precariamente”. Le guerre sono state fatte per ogni tipo di ragioni non economiche, come la religione o la vendetta, o semplicemente per ostentare potere.
Se i cittadini occidentali non riescono a mobilitarsi contro i propri governi e mezzi di comunicazione per fermare l’attuale follia, starà ad altri paesi svolgere questo compito. C’è da sperare che possano riuscirvi senza aggiungere un ulteriore capitolo sanguinoso alla storia che è iniziata con la volontà delle monarchie europee di schiacciare la Rivoluzione Francese.

JEAN BRICMONT insegna fisica all’Università di Lovanio in Belgio. E’ autore di Humanitarian Imperialism. Per contatti: Jean.Bricmont@uclouvain.be

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