A grande richiesta proponiamo, a puntate, il libro “La Grande Truffa” di Paolo Maleddu, uno di noi, un grande uomo che per il suo coraggio, la sua lealtà e la sua voglia di verità si trova oggi sotto l’attacco duro e sleale dello Stato italiano, uno Stato burattino delle lobbies bancarie internazionali
Paolo MALEDDU: “Ho scritto questo libro per una incontenibile necessità di condividere con quante più persone possibile un insieme di informazioni nelle quali mi sono imbattuto, e che hanno gradualmente aperto davanti ai miei occhi una visione del tutto nuova della realtà del mondo nel quale viviamo.
Una realtà insospettata, spaventosa, nella quale siamo immersi ma che non riusciamo a vedere, perché confusa dietro una barriera di notizie ed immagini sapientemente filtrate, falsate o anche solamente ignorate.
Le notizie che non vengono divulgate sono le più importanti.
C’è un mondo reale nel quale gli eventi scorrono così come avvengono, lieti o dolorosi che siano, in un flusso continuo. E uno parallelo, virtuale, creato dalla rappresentazione che i media danno di questa successione di eventi.
Noi viviamo nel mondo virtuale che ogni giorno radio, giornali, televisioni e cinema costruiscono per noi. “Educati” sin dai primi anni di scuola ad essere prigionieri di verità ufficiali, ci è poi difficile accettare versioni diverse, scomode, che non rientrano nei nostri orizzonti.”
“Esistono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che si insegna “ad usum Delphini”, e la storia segreta, in cui si rinvengono le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa.”
La Grande Truffa – dalla 1° alla 10°parte La Grande Truffa – 11°parte
La Grande Truffa – 12°parte La Grande Truffa – 13°parte
L’emissione monetaria
LA GRANDE TRUFFA
Come gli usurai internazionali si impossessano
di tutta la ricchezza prodotta dalla popolazione mondiale
14° parte
…………….
Per gli abitanti del mondo virtuale, basta la versione ufficiale della “commissione Warren”, con pallottole che fanno miracoli e Lee Oswald assassino senza movente.
Curioso ma vero, tra i membri della commissione c’era un banchiere, John J. Mccloy, ex-presidente della Banca Mondiale e della Chase Manhattan Bank: non si capisce (si fa per dire . .) a che scopo e con quali competenze specifiche. Era stato nominato membro della commissione da Lyndon Johnson, il successore di Kennedy che appena preso potere impedì che si continuassero a stampare i biglietti di stato liberi da debito.
Perché, dunque, ci limitiamo a coniare le monetine?
Fa parte degli accordi di “spartizione” dettati dai banchieri, ne abbiamo parlato nell’ultima parte del primo capitolo; le monetine rappresentano solo il 3% del contante circolante, gli spiccioli, e servono alla costruzione della menzogna virtuale: il denaro viene emesso dallo Stato.
I banchieri preferiscono tenere per sé il ben più consistente signoraggio (la differenza tra costo di stampa e valore nominale stampato sulla cartamoneta), sull’intero ammontare delle banconote emesse e ancor di più su tutto il denaro scritturale.
Il signoraggio non è altro che il compimento della truffa. Le banconote stampate al costo di 30 centesimi l’una e vendute agli sprovveduti popoli europei al costo nominale impresso su di esse.
Il biglietto di maggior taglio preso in prestito da noi a 500 euro più interessi, consente al sistema europeo delle banche centrali di lucrare più di 499, 70 euro!
Una clamorosa conferma di ciò che stiamo dicendo viene dalle parole autorevoli in materia dell’olandese Wim Duisemberg, che precedette Trichet e Draghi alla presidenza della Banca Centrale Europea.
Quando il ministro Tremonti qualche anno fa fece la proposta di trasformare in banconote le monete da uno e due euro, adducendo come motivazione il fatto che sottoforma di monetine il valore dell’euro venisse in qualche modo sottostimato, Duisemberg gli fece notare che così facendo lo stato italiano avrebbe perso il guadagno derivante dal signoraggio del conio.
Il signoraggio ben più consistente sulla cartamoneta è appannaggio della Banca Centrale Europea, che se lo spartisce con le banche centrali dei paesi membri, a noi rimangono gli spiccioli del conio delle monetine.
più gli interessi, ci viene sottratto attraverso il prelievo fiscale e divorato dalle voraci fauci del sistema bancario.
Praticamente l’intero ammontare del valore delle banconote emesse Un enorme debito che ci perseguita da quando apriamo gli occhi per la prima volta, a quando li chiudiamo definitivamente. Senza essere stati capaci di “vedere” il terribile inganno nel corso di una intera vita.
Il signoraggio pagato sulla produzione del contante rappresenta però solo il 4 o 5 % del volume della truffa.
Se infatti consideriamo che il 95 o 96 % del denaro emesso è scritturale e nasce come credito con un input elettronico sul computer (ma ripagato da noi con denaro “vero”), possiamo farci una prima idea delle dimensioni della truffa portata avanti ai nostri danni.
Teniamo bene a mente che il denaro è solo il mezzo di scambio che ci consente l’accesso ai beni necessari, e che dovrebbe entrare in circolazione senza nessun costo a noi addebitabile.
È solo uno strumento, una misura del valore.
Il governo ci indebita a nostra insaputa per farci avere il mezzo di scambio che è già nostro e non dovremmo pagare.
Per facilitare il compimento della truffa, è necessario che il popolo non comprenda come funziona il sistema e abbia solo una vaga idea che il denaro provenga dalla Zecca di Stato, e che la Banca d’Italia sia degli italiani.
È chiaro il motivo per il quale deve essere mantenuta in piedi la messinscena virtuale?
La Banca d’Italia nasce con la legge 443 del 10 Agosto 1893.
Il presidente del consiglio in carica, Giovanni Giolitti, volle darle da subito una ampia autonomia dal potere politico, evitando che fosse il governo a nominarne i vertici, e strutturandola come una società anonima nella quale la nomina degli organi amministrativi e di controllo spettassero all’assemblea dei soci, non certo al governo italiano.
Con regio decreto 28 Aprile 1910, all’art. 1, fu data facoltà alla Banca d’Italia, al Banco di Napoli ed al Banco di Sicilia, di emettere banconote “pagabili al portatore ed a vista”.
Tra il 1926 ed il 1927 una serie di decreti legge lasciò alla sola Banca d’Italia la facoltà dell’emissione delle banconote, affidandole il ruolo di Banca Centrale.
L’autonomia dal potere politico venne definitivamente ratificata da alcuni altri decreti legge tra il 1936 e 1938, con le quali per la prima volta si qualificava la Banca d’Italia come “Istituto di diritto pubblico”, nonostante si mantenesse la sua organizzazione interna di società anonima con ripartizione di utili tra i partecipanti, e si confermava un grandissimo potere autonomo nella figura del governatore (eletto dal Consiglio Superiore della banca) che aveva facoltà di fissare la ragione del tasso di sconto e la misura dell’interesse sulle anticipazioni in conto corrente presso la Banca d’Italia.
Considerando che la carica di governatore non aveva limiti temporali se non per dimissioni o revoca decisa sempre dal proprio Consiglio Superiore, ci si può rendere conto dell’enorme potere di condizionamento della vita economica e finanziaria dello stato concentrata in una sola persona non eletta dai cittadini, non controllabile dalle istituzioni ed a capo di una anonima impresa privata che detiene il monopolio dell’emissione monetaria.
Il 7 febbraio 1992 poi il definitivo distacco dallo Stato, con l’attribuzione alla banca centrale della facoltà di disporre le variazioni del tasso di sconto senza neanche dover consultare il ministro del Tesoro, grazie all’opera di Guido Carli, ex-governatore della Banca d’Italia, al tempo alla guida del ministero del Tesoro.
Se prima ci doveva essere una approvazione, seppure meramente formale da parte dello Stato, a partire da quella data non è più necessaria. Tutto ciò naturalmente per preparare la cessione della sovranità monetaria al Sistema Europeo delle Banche Centrali (Sebc) con il trattato di Maastricht, gli accordi per il quale venivano firmati, inquietante coincidenza, nello stesso giorno:
7 Febbraio 1992.
Una manovra minuziosamente preparata e condotta in maniera subdola alle spalle di un disinformato popolo italiano. Ancora una volta, un banchiere prestato alla politica che continua a fare gli interessi dei suoi veri padroni.
Dall’anno della sua fondazione e sino al 2005, l’informazione sulla proprietà della Banca d’Italia è sempre stata piuttosto riservata.
Il popolo è abbastanza maturo per lavorare e sobbarcarsi un enorme prelievo fiscale, ma non per sapere chi siano i veri proprietari della banca centrale emittente la valuta nazionale.
Trasparenza democratica.
“Se democrazia vuol dire trasparenza, come sosteneva Norberto Bobbio nei suoi scritti, la democrazia è ancora molto lontana.”, (Falco Accame in “Bankenstein”, di Marco Saba).
Ora si conoscono, se non i proprietari reali, almeno i nomi degli istituti di credito che ne detengono le quote. Non certo perché siano stati costretti a venire allo scoperto da un intervento della magistratura o di qualche altro organo di stato, ma perché Famiglia Cristiana ed Il sole24ore hanno potuto risalire ad essi indagando e trovando quote del pacchetto azionario di Bankitalia nel capitale sociale delle varie banche.
L’art. 3 dello statuto della Banca d’Italia sancisce che la sua maggioranza debba essere pubblica, mentre non lo è.
È lecito quindi dubitare che dal momento della sua fondazione, oltre 110 anni, si trovi in uno status di illegalità tollerata da classe politica e magistratura.
O meglio, si trovava, perché recentemente le cose sono state “sistemate”.
In seguito allo scandalo nel 2005 delle intercettazioni telefoniche dell’ex-governatore Antonio Fazio e delle sue conseguenti dimissioni, il governo Berlusconi passava una riforma sul risparmio nella quale trovava spazio pure una nazionalizzazione di Bankitalia, con il passaggio ad enti pubblici delle quote possedute da banche private.
Questa eventualità non era per niente gradita ai banchieri internazionali, ed il 31 maggio 2006, Mario Draghi, governatore in carica proveniente da Goldman Sachs, in chiusura dell’assemblea dei partecipanti della banca, dava indicazioni che erano in effetti ordini: no alla graduale nazionalizzazione proposta.
Il 16 dicembre 2006, il nuovo governo guidato da un altro uomo di Goldman Sachs, Romano Prodi, dando, qualora ce ne fosse ancora bisogno, ampia dimostrazione di completa sudditanza verso il sistema bancario, cambiava l’art. 3 dello statuto della Banca d’Italia, annullando l’obbligatorietà della proprietà pubblica.
Tutto sistemato.
Invece di punire il reato, si modificano le regole, ed il reato cessa di sussistere.
E quella storia de “la legge è uguale per tutti”?
I reati sono punibili quando commessi da noi contribuenti, individui con pochi diritti e molti doveri ammassati in un popolo-gregge. Quando commessi dai potenti, si possono sempre “aggiustare”.
Tornano in mente le parole di Howard Zinn: le leggi sono imposte dai potenti a loro esclusivo vantaggio. Questa sistemata ne è una conferma clamorosa.
Chi fa le leggi, noi?
No, noi siamo artigiani, operai, impiegate, commesse.
Quanti elettricisti o casalinghe siedono oggi in parlamento?
Con il regio decreto del 1936 la Banca d’Italia riuscì a farsi denominare “Istituto di diritto pubblico”, nonostante rimanesse strutturata come una società anonima di capitali, ed ad imporre per statuto la non revocabilità del governatore da parte del potere politico.
Il governatore, che già con la facoltà di fissare il tasso di sconto del denaro si trova a gestire un potere enorme, diventa un intoccabile.
Nel 1981, con Beniamino Andreatta ministro del Tesoro e Carlo Azeglio Ciampi governatore di Bankitalia, si giunse a sancire il diritto di quest’ultima a non sottoscrivere i titoli di stato.
Dopo aver ceduto alla banca centrale il privilegio di battere moneta, i politici la liberano anche dall’obbligo di prestarcela. Lo Stato chiede e la Banca d’Italia ha facoltà di negare il prestito, confermando di non essere degli, ma piuttosto contro gli italiani.
La Banca d’Italia, non acquistando i buoni del Tesoro italiani alle aste primarie, smette di essere il prestatore di ultima istanza (la ragione stessa dell’esistenza di una banca centrale) dando in pasto l’Italia alle voraci fauci dell’Usura internazionale.
Per il popolo ignaro, costretto a chiedere in prestito a privati a tassi usurai il denaro che già gli appartiene, inizia il tormentone di un debito pubblico inestingubile che cresce a partire da quegli stessi anni in maniera esponenziale.
Dopo essere stati privati del nostro sangue, ci dobbiamo umiliare a chiederlo in prestito a tassi usurai a dei privati nonostante noi stessi potremmo produrne in abbondanza gratuitamente.
Un grazie ad Andreatta e a Ciampi per i servigi resi al popolo italiano.
Un distacco sempre più netto tra Banca d’Italia e istituzioni, culminato con la già ricordata legge 82 del 7 Febbraio 1992 che attribuiva alla Banca d’Italia la facoltà di stabilire il tasso ufficiale di sconto senza doverlo più concordare con il ministero del Tesoro.
Cioè noi tutti, lo stato italiano, dopo aver ceduto a dei banchieri privati il privilegio di emettere la nostra moneta appropriandosene e prestandocela ad interesse, concediamo loro pure la facoltà di fissare unilateralmente il costo del denaro.
Il debitore (noi, lo Stato) rinuncia al diritto di essere consultato e di poter trattare il prezzo al quale il creditore (la banca) gli presterà il denaro.
Che potere reale avrà un governo che non ha il controllo del costo del denaro?
Che possibilità avrà di programmare un piano economico se non sa quanto gli costerà il denaro che preferisce prendere in prestito?
Che senso ha eleggere democraticamente dei rappresentanti privi di potere che invece di servire il popolo si trasformano in meschini servi di potenti finanzieri internazionali?
Voi vi sentite rappresentati da questi uomini senza dignità o vedete una qualche parvenza di democrazia (potere del popolo) in tutto ciò?
Dell’approvazione di questa legge che consegnava definitivamente ad una banca privata la sovranità monetaria e di conseguenza anche la sovranità popolare, ma varata come una qualsiasi leggina di poca importanza in un ambiente di smobilitazione per lo scioglimento anticipato delle camere, dobbiamo ringraziare, come no, ancora una volta, un ex-governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, nelle vesti di ministro del Tesoro.
Le vesti cambiano, l’uomo è lo stesso: nei panni di rappresentante del popolo, stava facendo i nostri interessi o quelli dei banchieri?
Altri protagonisti da ringraziare: Gianni de Michelis, Ministro degli Esteri, Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio, ed Azeglio Ciampi, controparte, Governatore della Banca d’Italia in carica e in procinto di diventare Presidente del Consiglio dei Ministri.
Vediamo di fare alcune considerazioni guidati solo dal buon senso comune.
I proprietari di Bankitalia vogliono mantenere l’anonimato, ci sono riusciti per oltre un secolo e ancora oggi noi non riusciamo ad intravedere fattezze umane dietro questa cortina fumogena formata da sigle ed astratte persone giuridiche (BNL, San Paolo, Imi, Unicredit, Capitalia, e così via).
Vogliono sicuramente farci credere che la loro banca sia nostra chiamandola appunto “d’Italia” e “Istituto di diritto pubblico”, ma appena si presenta l’occasione di nazionalizzarla lo impediscono con la complicità di tutta la classe politica, governo Prodi e opposizione di Berlusconi, sinistra e destra.
Perché?
L’anonimato ha senso solo quando si vuole nascondere qualcosa.
La segretezza, la società segreta, il segreto di stato, sanno molto di qualcosa di inconfessabile, di decisioni prese lontano dagli occhi del popolo sovrano, antitesi di democrazia.
“Il segreto serve essenzialmente per prevenire la democrazia. Occhio non vede, cuore non duole.”
Marco Saba nel suo “Bankenstein”
Cosa cercano di nasconderci?
Perché vogliono che noi crediamo che sia la” banca degli italiani” ma allo stesso tempo non vogliono mollare la presa su di essa?
Quali valori morali possono ispirare l’azione di questi banchieri senza volto che tentano in modo così subdolo di ingannarci spacciandosi per ciò che non sono, desiderosi di trovare una sorta di legittimazione con una identificazione solo formale con il popolo?
Cercano di non farci capire che, lungi dall’essere il popolo sovrano, somigliamo piuttosto a un gregge di pecore facilmente controllabile.
Con la cessione dell’emissione e proprietà della moneta a privati da parte dei nostri rappresentanti politici, alla Banca d’Italia prima, ed alla Banca Centrale Europea adesso, abbiamo perso la sovranità monetaria, e di conseguenza siamo stati costretti a cedere anche ciò che di per se è incedibile: la sovranità popolare.
L’art. 1 dello statuto della Banca d’Italia dice che “ … la Banca d’Italia e i componenti dei suoi organi … non possono sollecitare o accettare istruzioni da altri soggetti pubblici e privati.”
Quindi neanche il nostro governo può interferire.
Se noi (il nostro governo) non possiamo interferire nella gestione della moneta, lasciamo la nostra vita e il futuro dei nostri figli in mano di onnipotenti Usurai che non brillano certo per dirittura morale.
Per quanto riguarda l’altro inganno di aver fortemente voluto l’appellativo di “Istituto di diritto pubblico” da mettere bene in mostra subito dopo quello di Banca d’Italia, riporto alcune righe da “O la Banca o la Vita” di Marco Saba:
“..infatti, come ribadito anche dalla Cassazione, un ente viene definito pubblico quando, pur essendo privatizzato, ha un fine pubblico e un sistema di controlli pubblici. La Banca d’Italia risponde però a tali requisiti?
Sul fine pubblico nulla quaestio, trattandosi di un istituto di emissione; il problema sono i controlli da parte dello Stato, che nella sostanza non esistono”.
A seguire da “Euroschiavi” di Della Luna e Miclavez :
“Un punto di massimo interesse nell’ordinamento della Banca d’Italia è il principio di assoluta irresponsabilità del suo Governatore. Il Governatore della Banca d’Italia, di fatto e di diritto, è una sorta di gestore, di amministratore delegato di una s.p.a. privata. Ma, a differenza di tutti gli altri amministratori, non è responsabile delle proprie azioni e dei propri abusi. Di fatto, non viene nemmeno criticato per quelli che commette. È un intoccabile per lo Stato.
Così è avvenuto che nessuno ha chiamato il Governatore in carica nel 1992 a rendere conto del fatto che, nell’autunno di quell’anno, per sua propria decisione bruciò in due settimane inutilmente ben settantamila miliardi di Lire per ritardare di due settimane il crollo della Lira, quando si sapeva con certezza che la Lira stava per perdere ineluttabilmente circa il 25-30% sulle principali monete europee a causa del differenziale di svalutazione accumulato tra queste e la Lira italiana, nel corso di diversi anni, per i quali i rapporti di cambio tra le monete comunitarie erano stati bloccati, anche se le diverse monete si svalutavano a tassi molto diversi tra loro, sicchè la Lira aveva perso il 30% del potere d’acquisto rispetto al Marco tedesco. Eppure l’errore o abuso era clamoroso, e il danno per lo Stato è stato enorme e noi ne paghiamo ogni giorno le conseguenze di tasca nostra, mentre quei settantamila miliardi, denari dei contribuenti italiani, si trasferirono bellamente nelle tasche degli speculatori internazionali. Non solo nessuno lo chiamò a rispondere del suo operato, o anche solo a giustificarlo, fosse anche in sede politica, come si sarebbe fatto con un ministro che avesse cagionato un simile disastro nazionale: lo fecero superministro dell’economia, capo del governo e infine capo dello Stato”.
Gli autori non lo nominano, ma il personaggio in questione è Ciampi.
È una immagine diversa da quella stereotipata data dai servili media nazionali che ce lo hanno sempre presentato come un bonario padre di famiglia, il nonnino ideale per i nostri nipotini.
Vogliamo leggere cosa dice di lui Maurizio Blondet in un articolo (Abbiamo due Governi) del 2005 apparso sul suo giornale online www.effedieffe.com?
“In realtà abbiamo due governi.
Berlusconi viene accusato di essere l’artefice del “declino italiano” (effetto di incrostate ignoranze e provincialismi culturali e scientifici coltivati nell’ultimo mezzo secolo), e Ciampi va in India e in Cina ad invitare gli imprenditori italiani a investire là. Lo ringrazino i lavoratori italiani che perderanno il posto: in Cina la paga media ammonta a 1300 euro l’anno, quella si che è competitività.
Ciampi fa la sua politica, distinta e separata da quella di Berlusconi. Abbiamo un governo eletto, e un governo presidenziale autonomo, non eletto. Berlusconi è ampiamente criticato e spernacchiato dai grandi media nazionali. Ciampi è circondato solo da corale devozione. Si riportano con mistico rapimento le sue banalità, si esalta la sua “umanità”, si prendono per oro colato i suoi “paterni consigli”.
Nessuno, proprio nessuno, ricorda i danni che Ciampi ha ripetutamente fatto all’Italia durante la sua permanenza a Bankitalia e, peggio, come capo del governo sostenuto dalle sinistre. Ciampi ha dilapidato almeno 60 mila miliardi di lire (denaro nostro) in una “difesa della lira” stolta, incompetente e dissennata. Fu quando lo speculatore George Soros, utilizzando la leva dei derivati, attaccò insieme lira e sterlina: data la tecnica della manovra, qualunque economista capiva che Bankitalia non poteva farcela da sola. Il governatore (Ciampi) avrebbe dovuto fare una cosa: telefonare alle Banche Centrali d’Europa, Bundesbank e Banca di Francia, e chiedere il loro aiuto. Ad una risposta negativa, avrebbe dovuto immediatamente smettere di spendere soldi italiani per una difesa senza speranza. Per un atto di simile incompetenza, il Governatore della Banca Centrale tailandese finì addirittura sotto processo.
Ciampi come capo del governo fece alcune “privatizzazioni” che sarà bene ricordare. Per esempio, vendette un gioiello dell’Iri, con avanzatissima ricerca interna, leader mondiale di mercato nelle turbine a gas – la Nuova Pignone – agli americani. Più precisamente, al concorrente americano della Nuova Pignone. E per quanto? Per mille miliardi. Ora, bisogna sapere che in quel momento la Nuovo Pignone aveva in corso ordinativi per . . . mille miliardi. La ditta fu dunque regalata da Ciampi, cosi buono e umano, cosi pensoso dei destini degli italiani, al suo competitore Usa.
Ciampi chiuse l’azienda Enichem di Crotone che produceva fosforo, unica in Europa, perchè in quel momento – del tutto temporaneamente – sui mercati mondiali il fosforo costava meno di quello prodotto in Italia. Fu cosi chiusa una fabbrica che aveva dato a Crotone una classe operaia e tecnica, e aveva una perdita momentanea di pochi miliardi di lire (l’intera produzione valeva 12 miliardi annui, e dava lavoro a 5000 addetti). Poi il prezzo del fosforo si rialzò sui mercati mondiali, e ora dobbiamo comprarlo all’estero: pagandolo in dollari e non in lire o euro. Ma intanto Ciampi aveva dato il suo degno contributo al Meridione.
In compenso, Ciampi inaugurò in pompa magna il “modernissimo stabilimento della Fiat a Melfi”. Che non ha dato lavoro, essendo completamente robotizzato, e che la Fiat ha avuto gratis perché è stato lo Stato (i contribuenti) a pagarglielo, con 5 mila miliardi di lire.
La conclusione è una sola: come presidente, Ciampi non è competitivo. Il presidente americano costa molto meno (600 mila dollari l’anno), la Corte d’Inghilterra molto meno del Quirinale. Dovremmo prenderlo in parola, e assumere in sua vece un presidente cinese o indiano. Se Ciampi vuole davvero rendersi utile, si tagli lo stipendio presidenziale, che ammonta a parecchi miliardi di lire l’anno. Riduca i 5 mila dipendenti del Quirinale. Dimezzi lo stipendio al suo segretario preferito Gaetano Gifuni: da 2 miliardi a 1 miliardo annuo; di fame non morirà.”
Sarebbe interessante studiarsi gli avvenimenti che precedettero la fondazione della Banca d’Italia. In particolare lo scandalo di fine 1800 che coinvolse diverse banche, il trasferimento al nord, voluto da Cavour, di tutto “l’oro di Napoli”, qui inteso come metallo giallo, non certo come pasta e pizza, e dell’aggressione del pacifico Regno delle Due Sicilie, venduta per unità d’Italia.
Altra menzogna virtuale appresa sui banchi di scuola.
continua…..
Paolo MALEDDU