Sembra il 1875, dopo quasi un secolo e mezzo il nativo popolo  Sioux sta ancora combattendo per la sua terra. Il popolo Dakota (Sioux), da sempre vittima dell’arroganza colonizzatrice dello Stato terrorista americano, continua a combattere per la sua terra. I Trattati americani, che parlano di sovranità Dakota sulle loro terre, continuano ad essere solo carta straccia e quando si tratta di sfruttare le loro risorse, petrolio, gas, carbone, uranio, acqua, ecc., devono subire lo scippo da parte dello Stato.

 

 

di Mark Sandeen

 

Due dei problemi più importanti del nostro Paese, il razzismo e il cambiamento climatico, si sono scontrati in una riserva del North Dakota. Questa settimana ho caricato la mia station wagon con acqua e provviste, e ho guidato per andare a dare un’occhiata a una dimostrazione storica che potrà dare nuova forma al dialogo nazionale per il futuro.

 

La scorsa settimana la tribù Sioux di Standing Rock in North Dakota è assurta a eroe del cambiamento climatico quando, con poca influenza politica e senza essere portata alla ribalta dai media, ha fermato la costruzione dell’oleodotto Dakota Access, il cui costo è preventivato in 3,7 miliardi di dollari. Dopo che il capotribù David Archambault II e altri Sioux sono stati arrestati per aver piazzato delle barricate al fine di bloccare le scavatrici, Leonardo Di Caprio ha twittato di essere stato ispirato da loro e Bill Mc Kibben ha descritto i Nativi Americani come «l’avanguardia del movimento». Non appena la tribù ha citato in giudizio lo U. S. Army Corps of Engineers perché fermasse i suoi uomini che stanno scavando sotto il fiume Missouri, che si trova subito a monte rispetto alla loro terra, è nato l’hashtag (impronunciabile e sgraziato) #NoDAPL, acronimo di No Dakota Access Pipeline.

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Contemporaneamente la sfida ha evocato il pessimo passato – e presente – razziale dell’America. «Sembra il 1875 perché i Nativi stanno ancora combattendo per la loro terra», ha twittato lo scrittore nativo Sherman Alexie. Archambault  avrebbe potuto descrivere Ferguson o Baltimora quando, sul «New York Times» ha screditato la selezione razziale e ha sostenuto che «lo Stato ha militarizzato la mia riserva». In un tocco di stupidità epica, che sarebbe divertente se non servisse a rivelare quanto l’opinione comune sia convinta che le persone di colore sono violente, quando i Lakota hanno invitato i parenti a impacchettare i loro calumet [peacepipe] e radunarsi con loro in segno di solidarietà, lo sceriffo (bianco) della contea ha pensato che si riferissero a bombe tubo [pipebombs].

Entro lo scorso weekend parecchie migliaia di Nativi Americani sono arrivate da tutto il Paese a Standing Rock, la riserva di 3500 miglia quadre con 8250 abitanti. A loro si sono uniti una piccola rappresentanza di bianchi e un certo numero di attivisti di Black Lives Matter di Minneapolis. L’accampamento si trovava subito fuori dei confini, sulla terra che è sotto l’amministrazione dell’esercito. I soldati hanno bloccato l’autostrada verso Bismarck, dando ai manifestanti – o «protettori», come insistono a voler essere chiamati – la possibilità di allontanarsi ma non di tornare. Presso la corte distrettuale del District of Columbia i legali della tribù sostengono che l’oleodotto inquinerebbe la loro acqua e desacralizzerebbe i sacri siti di sepoltura. Il giudice James E. Boasberg ha affermato che deciderà nelle prossime settimane se emettere un’ingiunzione contro la corporation che costruisce l’oleodotto Dakota Access, una consociata della Phillips 66 e una compagnia texana, la Energy Transfer.

Intuendo che stanno per esplodere i due problemi americani in equilibrio più instabile – il razzismo e il cambiamento climatico –, ho tolto i sedili posteriori alla mia station wagon, ci ho infilato dentro un materasso, cinque galloni d’acqua e provviste per cinque giorni, e sono partito per Standing Rock.

Appena dopo il tramonto sono arrivato alla sommità di un colle sopra il Cannonball River e là sul fondo rigoglioso di erba ho potuto osservare un classica icona americana: una ventina di teepee e un mucchio di tende illuminate da fanali di auto e falò, ricoperte da una nebbia di polvere di pneumatici e fumo di legna, e cavalieri che galoppavano a pelo su cavalli dipinti. All’interno del cerchio centrale di falò, ho visto uomini che battevano sui tamburi, circondati da donne che cantavano con loro vecchi canti lakota ben oltre mezzanotte, sostenendosi con caffè, sigarette e pasticche per la tosse.

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Ho parcheggiato vicino a un gigantesco teepee sulla riva del fiume, ho dormito in macchina e al mattino ho incontrato i miei vicini, una delegazione di anziani Pawnee che erano arrivati da Broken Arrow (in Oklahoma), dopo un viaggio in auto durato diciotto ore. Fino a che punto non sapessi in che cosa mi stessi infilando è stato chiaro quando il capo Morgan Little Sun, 58 anni, un cordiale e affabile saldatore e costruttore di teepee, mi ha detto che la sua maggiore preoccupazione nel recarsi qui non erano i poliziotti, ma le tribù Sioux.

 «I Pawnee e i Sioux si odiano da sempre», ha affermato. Anche se le tribù avevano firmato un trattato di pace, LittleSun aveva visto ostilità e anche scontri durante i pow wow [raduni di Nativi].

 Ho chiesto quando le tribù Pawnee e Sioux avessero firmato questa pace agitata.

 «Centocinquant’anni fa».

 Per quel che ne sapeva Little Sun, questa era la prima volta da allora che dei capi Pawnee si erano spinti così avanti in territorio Sioux. Mentre le date dei trattati e delle guerre indiani sono particolari da test di storia che la maggior parte dei bianchi (come me) tende a dimenticare, Little Sun era uno dei tanti Nativi americani che ho incontrato per cui il passato non era davvero morto (come si dice) e nemmeno passato. Snocciolavano questi eventi del diciannovesimo secolo come se fossero accaduti il giorno prima, e questo raduno a Standing Rock era l’occasione per tentare di fare la storia in un modo nuovo. Il sito dove ci trovavamo si chiama Seven Councils Camps, per indicare la prima volta che tutte le bande di Lakota si erano radunate in un unico posto in più di un secolo. Quel pomeriggio la nazione Crow aveva marciato nel campo con i copricapo da guerra, sventolando bandiere, cantando e lanciando grida di gioia, portando un calumet e un carico di carne di bisonte, offrendo il primo vero tentativo di riconciliazione dal 1876, quando i Crow avevano fatto da guida a Custer a Little Bighorn, dove la cavalleria statunitense aveva ricevuto un calcio nel suo beneamato sedere dai Lakota. Al momento dell’ultimo conteggio i rappresentanti di più di centoventi nazioni tribali erano arrivati, anche da posti lontani come le Hawaii, il Maine, la California e il Mississippi.

Ma quando ho chiesto a Little Sun, la cui tribù vanta con fierezza una tradizione di ladri di cavalli, se si sentisse a disagio qui, ha scosso la testa con enfasi e la sua faccia si è allargata in un sorriso. «È la cosa più bella che abbia mai visto», ha detto. Per tutta la giornata sconosciuti sono entrati nel suo accampamento offrendo cibo e legna per il fuoco e chiedendogli a quale tribù appartenesse. Alla sua risposta non hanno fatto un passo indietro, ma lo hanno abbracciato come un fratello, uno zio, un anziano. «Quando però ho innalzato la bandiera Pawnee su un palo», ha aggiunto Little Sun ridendo, «tutti hanno spostato i loro cavalli dall’altro lato del campo!»

Una serie di cucine erano aperte ventiquattr’ore su ventiquattro per fornire pasti gratis a circa mille persone. Un microfono era a disposizione di chiunque volesse parlare e per tutta la lunga giornata calda un viandante dopo l’altro ha descritto quanto fosse meraviglioso essere lì, quanto fosse importate vedere Nativi Americani di tutte le nazioni radunati per uno scopo comune. Certo, ho visto passione e rabbia e solennità, ma la cosa principale che ho visto è stata la gioia. C’era chi aveva ritrovato parenti persi di vista da tempo. I genitori erano venuti con i figli e una scuola improvvisata teneva lezioni di come si cavalca e come si prepara il fry bread. T-shirt e striscioni con slogan ironici come nativi con stile o fuori da pine ridge accennavano a gioventù, orgoglio e immersione nella cultura politica pop. Un gruppetto di maschi adolescenti su un camioncino è passato a fianco a tre ragazze carine e ha chiesto speranzoso: «Di che tribù siete?» Ci sono stati canti, danze e preghiere, capanne sudatorie e kayak e nuotate, un normale paradiso nativo americano.

Oltre al piacere che chiaramente provavano a essere non una minoranza, ma la schiacciante maggioranza, in quanto reporter bianco provavo un certo fastidio all’idea di tirar fuori penna e taccuino per far domande in giro. Ho bazzicato per lo più l’accampamento Pawnee, e ogni mattina ho fatto il caffè per i miei vicini che avevano dimenticato il bricco. A differenza di molte nazioni tribali il cui numero è aumentato durante lo scorso secolo, i Pawnee, che sono stati fatti spostare a piedi dal fiume Missouri all’Oklahoma, contano solo 3482 membri registrati. I capi mi hanno detto che recarsi agli uffici dell’anagrafe dopo mesi quando il numero dei morti sopravanza quello dei nati era straziante.

Qualche giorno prima del mio arrivo alcuni funzionari statali avevano portato via un’autocisterna d’acqua che era a disposizione dei manifestanti. Forse pensavano di aver a che fare con una banda di cacciatori che morivano di fame, facili pertanto da allontanare spaventandoli, invece che con una nazione sovrana con i propri governo, polizia, posta e stazioni radio.

«Sembra il 1875 perché i Nativi stanno ancora combattendo per la loro terra»

Per ore la tribù Sioux di Standing Rock aveva tirato su le proprie infrastrutture: file di toilette portatili, serbatoi d’acqua, un camper attrezzato per risolvere qualsiasi emergenza, cassonetti, ambulanze, un autoarticolato refrigerato. Nel frattempo ogni delegazione arrivava con contanti e cibo. Tonnellate di cibo. Ho trascorso una giornata a cucinare polpette stufate nella cucina principale e ho scoperto, oltre al resto, una tenda da quattro colma sino alla cima di sacchi di farina. La tribù aveva anche una sua impresa di produzione di carne. La nazione Yakima (dello stato di Washington) ha noleggiato una trattrice con rimorchio riempito di pallet pieni di frutta fresca e acqua in bottiglia. Sono state ricevute anche donazioni piccole: qualcuno ha inviato quattro pacchetti di noodle Lipton. Quando chiedevo quanto a lungo avevano pensato di fermarsi, la maggior parte rispondeva: «Sino alla fine».

Un giorno ha fatto così caldo che ho preso la macchina per andare a controllare la mail sotto l’aria condizionata del Prairie Knights Casino and Resort, di proprietà della tribù. Dopo giorni trascorsi a parlare di spirito e giustizia sotto il grande cielo aperto, è stato uno choc chiudersi nella taverna scura e fresca dei casinò, con gli ABBA sparati a palla dagli altoparlanti di un televisore grande il doppio della mia auto. Ho guardato cinquantotto anziani scendere da un torpedone proveniente da Bismarck, tutti e cinquantotto caucasici, e non appena hanno buttato le loro pensioni dentro ai «banditi con un braccio solo», mi sono chiesto se sapessero che poco distante si stava sottoscrivendo la disobbedienza civile.

L’unica nota di freddezza che ho trovato nei Sette Concili è stato un accampamento in un boschetto di pioppi (il Red Warrior Camp), circondato da una staccionata cui sono appesi cartelli sui quali si legge: no media. no turisti. fare il check in con la sicurezza. Un’organizzatrice mi ha detto che il campo è stato addestrato alla azione diretta non violenta.  «Qualsiasi cosa accada nel Red Warrior Camp resta nel Red Warrior Camp», sostiene. Quando mettono un microfono fuori dal cancello, la loro retorica include lo stesso messaggio di solidarietà e spirito, ma con un tono più militante. La gente del campo era più giovane, qualcuno di loro era bianco, alcuni vestivano uniformi mimetiche e avevano una bandana sulla faccia. Mi è stato detto che molti degli attivisti arrivavano dalla Riserva indiana Pine Ridge del South Dakota, luogo del massacro di Wounded Knee del 1890 e della rivolta del 1973, che reca ancora il segno di una missione che pareva impossibile ma è stata felicemente portata a termine dai giorni dell’American Indian Movement. A differenza della tribù di Standing Rock, che corteggia i reporter mainstream, il Red Warrior annuncia il suo messaggio su Facebook. Non ho cercato di entrare nel campo, ma ho incontrato alcuni dei giovani nativi che ci vivevano. «Per chiamarsi Red Warrior Camp», ha scherzato uno di loro, «ci sono davvero molti guerrieri bianchi».

Tuttavia in cinque giorni non ho visto traccia di violenza, mancanza di leggi, alcol o anche solo ostilità. Un paio di speaker hanno addirittura dato il benvenuto ai «parenti europei» come me. Ogni giorno c’erano marce per la pace e preghiere presso il cantiere inattivo, cerimonie di benvenuto alle tribù appena arrivate, e – mentre la temperatura pomeridiana si alzava – tuffi nelle fresche acque del Cannonball, un tempo ricco di acque. «Fiume» non è la parola corretta per descrivere queste acque. Torbido, fermo e pieno di fango melmoso, è più un serbatoio, un emissario del lago artificiale creato dalla diga Ohae.

«Quando abbiamo bisogno di aiuto, ci dicono che abbiamo la sovranità. Ma quando si tratta di sfruttare le nostre risorse – petrolio, gas, carbone, uranio, acqua –, allora fanno due conti per vedere quanto ne può ricavare lo Stato».

Ho incontrato Nick Estes, un Sioux Lower Brule del South Dakota, che ricordava che quando era bambino, i nonni gli raccontavano storie riguardo al meraviglioso fiume Missouri. «Ma dopo gli anni Quaranta i racconti sono finiti». Il Pick-Sloan Missouri Basin Program ha autorizzato la costruzione di nove dighe – cinque delle quali sul territorio indiano – obbligando coloro che vivevano lungo le rive a trasferirsi. Standing Rock perse 55.000 acri, mentre l’adiacente riserva  Cheyenne River ne perse 150.000.

«Se il Dakota Access uccide il fiume», dice Estes, «sarà la sua seconda morte».

Secondo lo storico Michael Lawson, autore di Damned Indians: «La diga Ohae ha distrutto più terra indiana di qualsiasi altro progetto di opera pubblica in America». Estes mi ha detto che i suoi anziani «sono morti di mal di cuore».

Le nazioni indiane, con le loro ampie risorse naturali e il loro limitato potere politico, hanno spesso sostenuto l’onere dell’estrazione delle risorse. Per i Lakota il «Serpente nero», come molti chiamano il Dakota Pipeline, non è altro che un’ulteriore riduzione della loro terra – cioè un’ulteriore rottura dei trattati. E gli Indiani non possono fare a meno di notare che – sebbene nessuno riconosca che il motivo per cui vengono ostracizzati è il razzismo – le vittime delle varie catastrofi ecologiche da decenni sono spesso membri della loro razza. Tra dighe, sversamento di rifiuti tossici, fracking [fratturazione idraulica], fuoriuscite di petrolio e test di bombe atomiche, la lista di ingiustizie perpetrate nei confronti delle comunità di Nativi potrebbe riempire pagine e pagine.

Nel 2014 si propose di far passare il DAPL attraverso Bismarck, la capitale del North Dakota, che conta circa 61.000 abitanti, il 92 per cento dei quali è bianco. Dopo che il Corps stabilì che l’oleodotto avrebbe potuto causare la contaminazione dell’acqua potabile, si decise di ritracciarne il percorso, facendolo transitare da Standing Rock. «Questo è razzismo ambientale», ha detto Kandi Mossett, della nazione Mandan, Hidatsa e Arikara, una delle organizzatrici con l’Indigenous Environmental Network.

Questo tipo di oltraggio non è limitato agli attivisti. Russell Begaye, presidente della nazione navajo (che conta 360.000 membri ed è la più grande del Paese), è arrivato in jet dall’Arizona. Essendo l’unico in cappotto e cravatta (un gigantesco cravattino texano di turchese, per essere precisi), sembrava l’indiano americano più potente dal punto di vista politico. Quando gli ho chiesto se il fatto che progetti come il DAPL passassero sulla terra dei Nativi gli sembrasse un chiaro esempio di razzismo, Begaye ha risposto: «Certo! Avrebbero potuto farlo passare più a nord, ma non lo faranno, perché là la popolazone non è indiana». Ha citato lo sversamento di acque reflue della Gold King Mine del 2015 nel fiume Animas in Colorado, che ha inquinato le acque e le fattore dei Navajo.

La parte centrale di questo dibattito si impernia su un concetto cui la maggior parte dei non Nativi dà poco peso: la sovranità. Secondo i trattati, gli Indiani dovevano essere considerati facenti parte di nazioni autonome e con loro dovevano esserci accordi diplomatici, come con i governi stranieri. Tutto ciò non è mai accaduto. Le riserve sono state rette da agenti bianchi del Bureau of Indian Affairs non eletti dalla popolazione nativa, che hanno messo al bando la lingua e la religione native. Ma nei decenni passati, le riserve hanno istituito i propri governi e, con l’aiuto di squadre di avvocati, hanno combattuto – e in molti casi vinto – per vedere applicati i diritti sanciti dai trattati. La causa legale di Standing Rock può essere incentrata sulla sovranità. La legge prevedeva che l’Army Corps of Engineers si consultasse con la tribù prima di permettere il passaggio dell’oleodotto, ma non prevedeva che la tribù dovesse approvarlo. Quindi Standing Rock contesta il fatto che sia stata presa una decisione contro il suo parere.

«Quando abbiamo bisogno di aiuto, ci dicono che abbiamo la sovranità», dice Mossett. «Ma quando si tratta di sfruttare le nostre risorse – petrolio, gas, carbone, uranio, acqua –, allora fanno due conti per vedere quanto ne può ricavare lo Stato».

Le Nazioni unite sembrano esser d’accordo. Mercoledì il Permanent Forum on Indigenous Issues ha rilasciato una dichiarazione secondo la quale il non aver consultato i Sioux sul DAPL ha violato la Dichiarazione dei diritti delle popolazioni indigene, una risoluzione del presidente Obama firmata nel 2010.

Per ciò che concerne la notorietà come «crociati del clima», i membri della tribù sioux di Standing Rock non avevano intenzione di ammantarsi della definizione. La loro causa, in cui sono rappresentati dal gruppo ambientalista Eartjustice, non fa parola di carbone o combustibili fossili. Per questo, non viene menzionato il razzismo. Si incentra strettamente su due punti: il potenziale inquinamento delle loro fonti idriche nel caso di uno sversamento e il turbamento dei siti sacri. E già la loro sfida ha creato scompiglio, e in questo momento di eccitazione, altri indigeni americani stanno mettendo sul piatto idee che uniscono le spesso alienate cause progressiste dell’ecologia e la giustizia razziale.

«Il cambiamento climatico è intrinsecamente razzista», ha detto Nick Estes, cofondatore dell’organizzazione attivista Red Nation, che sta facendo un dottorato in American Studies all’Università del New Mexico. «L’Antropocene è iniziato con l’estrazione dei combustibili fossili, che è iniziata con la colonizzazione. L’innalzamento delle temperature è iniziato con la rivoluzione industriale. E il danno è stato arrecato alle “persone sacrificabili”, sfruttando il lavoro dei neri e la terra degli indigeni».

Ci sono stati canti, danze e preghiere, capanne sudatorie e kayak e nuotate, un normale paradiso nativo americano.

 Sfumato il tentativo del diciannovesimo secolo di sconfiggere gli Europei o quello del ventesimo di assimilarsi, ora la strategia è schierare avvocati, denaro, terra, peso politico per sopravvivere loro. «Ci chiamo il popolo “weebee”», ha detto Brian Cladoosby, presidente del National Congress of American Indian. «Eravamo [we be] qui quando sono arrivati, saremo [we be] qui quando saranno andati via».

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Forse l’idea più sbalorditiva che emerge è un completo capovolgimento della narrativa del benevolo – forse paternalistico – bianco liberale che migliora le condizioni della minoranza oppressa. Le persone che ho incontrato qui hanno la sensazione che i bianchi si siano allontanati così tanto dal loro nucleo spirituale che dovrebbero essere gli Indiani a salvarli. Un artista hip-hop pawnee noto come Quese IMC (nato Marcus Frejo Little Eagle), con la barba nera, orecchini a cerchio, occhiali dalla montatura spessa e un cappello da baseball con la visiera al contrario, mi dice che sia il razzismo sia lo sfruttamento della terra derivano dallo stesso malessere: una mancanza di spiritualità che nutre una mancanza di compassione per gli altri esseri. «La terra è uno spirito, l’acqua è uno spirito, e se non si ha spirito e non si è connessi con quelle cose, sarà facile distruggerle, senza nemmeno curarsene».

Quando ho chiesto al capo LittleSun che cosa ci fosse di così grande nell’adunanza, mi ha risposto: «L’aspetto spirituale di questo movimento. Questo territorio è il posto più sacro della terra in questo momento». Questa è stata la prima volta in tutta la sua vita in cui ha preso parte a una qualche forma di protesta o movimento. Gli ho chiesto se si consideri un ambientalista. Little Sun ha scosso la testa. «Non so nemmeno cosa significhi». È stato come se gli avessi chiesto se fosse uno «skin-ist» o un «body-ist». Semplicemente non pensa a se stesso come a un’entità separata dalla terra.

Parlando all’accampamento più vasto, Begaye ha paragonato i Navajo che parlando in codice hanno contribuito a sconfiggere Hitler ai Nativi americani odierni che guidano la lotta per proteggere la terra e l’acqua. «Abbiamo sempre salvato i bianchi da loro stessi!» ha dichiarato, e la folla ha rumoreggiato in approvazione.

Con un così gran numero di festeggiamenti nel campo dei Sette Concili, la gente si è accorta a stento che i bulldozer stavano andando avanti a scavare a poche miglia dal sito da cui erano stati allontanati. Ma i Red Warriors se ne sono accorti. Prima dell’alba del 31 agosto due giovani Lakota si sono incatenati ai macchinari in un punto dove i lavori dell’oleodotto continuavano, a circa 40 chilometri dal campo.

La polizia di Stato e quella della contea sono arrivate rapidamente, hanno bloccato l’autostrada e hanno iniziato a cercare di portare via i due uomini. Dale American Horse jr, 26 anni, di Sioux Falls, South Dakota, noto con l’eccellente soprannome di Happy, era appollaiato due metri sopra il terreno, con le braccia incatenate a un’asta idraulica che torreggiava alta sopra di lui. È un bel ragazzone, ben rasato, con una spessa bandana rossa stretta appena sopra gli occhi, a coprire la treccia nera. Ha detto ben poco quando i pompieri hanno cercato di portarlo via o mentre una folla di una cinquantina di persone cantava, suonava i tamburi e prendeva in giro i poliziotti dalle facce tonde per sostenerlo.

«Avete mai indossato un’uniforme per difendere quella costituzione?» li ha scherniti un vecchio Indiano, con una lunga treccia grigia tenuta ferma da una fascia. Succhiava una sigaretta e soffiava il fumo nel vento, e quando la polizia ha impedito ai sostenitori di affumicare American Horse con il fumo della salvia, la sua voce si è levata. «È un diritto religioso che abbiamo pagato con il sangue, con la stella rossa sulla bandiera! Indossiamo tutti delle uniformi! Abbiamo vinto le guerre per voi!»

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Happy American Horse è stato portato via e arrestato dopo essere rimasto legato allo scavatore per sei ore. Clay Hall, portavoce dei Red Warriors, ha definito l’azione un successo, che ha fermato la costruzione dell’oleodotto per un giorno ed è costata alla compagnia centinaia di migliaia di dollari per il ritardo. «Alla maniera Lakota, lo chiamiamo “counting coup”», mi ha detto. «Li vinciamo con un’azione che non si aspettavano». È troppo presto per dire quanto influirà sul risultato finale il rapporto fra il Red Warrior Camp e il governo tribale di Standing Rock, o che pena sconterà American Horse. Hall ha detto che il suo gruppo non era interessato soltanto a cambiare il percorso del progetto, voleva anche uccidere il «Serpente nero».

In sintesi i Red Warriors hanno messo in scena una stupefacente guerriglia. Tredicimila persone hanno seguito l’azione live su Facebook. La foto di Happy American Horse abbracciato all’asta d’acciaio è diventata virale. Stretto al palo con una nazione libera dietro di lui, con le braccia legate, gli occhi serenamente abbassati, un uomo dalla pelle ambrata tra le mani di guardie bianche: l’immagine che è stata trasmessa dall’America al mondo è fin troppo simile a quella di un guerriero portato al patibolo. O alla croce.

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