Dopo le elezioni del 24 aprile, nell’isola il governo è passato nei giorni scorsi nelle mani di una coalizione di quattro partiti che hanno come primo obiettivo la totale e repentina indipendenza dal Regno.
Il Regno di Danimarca ora trema davvero, dopo due secoli rischia di perdere il 98 per cento del suo territorio, cioè la Groenlandia, che fino a pochi anni fa era quasi un peso economico, ma da quando l’Artico in via di scioglimento si è trasformato in una regione contesa dalle maggiori potenze mondiali, quell’isola, la più estesa del Pianeta – rivelatasi una cassaforte zeppa di ogni bendidio – è diventata per Copenaghen la più grande opportunità della sua storia. Peccato che gli inuit siano invece decisi a tagliare gli ormeggi e a procedere a grandi passi verso la secessione. Sui giornali danesi, dove si dà voce a un’opinione pubblica attonita e rabbiosa, la parola in codice è ormai «Greenxit», anche se qualcuno paragona gli eventi in corso a Nuuk, la lillipuziana capitale groenlandese, all’escalation del separatismo catalano.
Dopo le elezioni del 24 aprile, nell’isola il governo è passato nei giorni scorsi nelle mani di una coalizione di quattro partiti che hanno come primo obiettivo la totale e repentina indipendenza dal Regno. E il primo provvedimento annunciato dall’esecutivo del premier Kim Kielsen, giusto per lanciare un messaggio anticolonialista chiaro, è stato quello di sostituire l’inglese al danese come seconda lingua (il groenlandese era diventato lingua ufficiale con il precedente governo). Ma il vero collante che ha messo insieme i socialdemocratici alla destra è la volontà di dare via libera alle concessioni minerarie che permetterebbero all’isola, Kalaallit Nunaat, la Terra dell’uomo del Nord, come gli inuit chiamano la nazione che li ospita da cinquemila anni, di emanciparsi dal sussidio annuale danese di circa 500 milioni di euro, necessari per finanziare un welfare non certo di livello scandinavo (la popolazione soffre un degrado sociale senza precedenti). La madre di tutte le miniere, quella che potrebbe da sola sopperire al sussidio di Copenaghen è il Kvanefjeld, la più grande formazione di uranio e terre rare del Pianeta.
Nella coalizione precedente, la sinistra alleata del premier Kielsen era fortemente contraria a dare il via allo sfruttamento, soprattutto perché la concessione di minerali così politicamente sensibili è in mano ai cinesi. Ora la Shenghe Resources Holding Ltd di Shanghai potrebbe molto presto aprire il cantiere. Ecco perché l’esito del voto in quella terra remota e abitata da soli 57mila individui, praticamente gli spettatori dello Juventus Stadium, non ha interessato solo Copenaghen, ma molte capitali mondiali. Ciò che accade a Nuuk coinvolge interessi globali, l’Europa, gli Stati Uniti, la Nato, e appunto la Cina.
«Abbiamo bisogno dei capitali cinesi», dice al Giornale l’ex ministro degli Esteri Vittus Qujaukitsoq e ora a capo di un nuovo partito nazionalista (Nunatta Qitornai, discendenti della nostra terra) alleato di governo: «Senza di loro non possiamo diventare uno Stato nazione, aprire finalmente ambasciate e avere il pieno controllo di ciò che accade dentro e intorno alla nostra amata isola. E loro hanno bisogno del nostro pesce e dei nostri minerali. Indubbiamente ambiscono a un ruolo importante nell’Artico, e questo fa andare in bestia tutti, Danimarca, Unione Europea, Nato e soprattutto gli Stati Uniti».
Uno scambio impari, un gioco d’azzardo. Perché la Groenlandia si trova al centro della contesa per il dominio della regione artica e delle mire cinesi con il suo strategico capitale geografico, ma soprattutto perché è un caveau di ricchezze, rubini, smeraldi, diamanti, oro, uranio, zinco, petrolio, gas… Nonostante la pesca rappresenti ancora il 90 per cento del Pil e delle esportazioni, gli Inuit intendono comprarsi il biglietto per la libertà con le miniere. Dura per la piccola Danimarca mollare il bottino e perdere, attraverso la Groenlandia, il ruolo di potenza artica europea, l’unico paese a tenere agganciata l’Ue alle opportunità di sviluppo nella regione che cresce di più al mondo, 11% l’anno, dove si aprono nuovi immensi territori di pesca, nuove rotte mercantili, dove c’è tutto da costruire, fosse solo per i milioni di turisti sempre più attratti dal Grande Nord.
La Groenlandia uscì trent’anni fa dall’Unione, unico precedente alla Brexit; l’ultima speranza di Bruxelles è che decida di aderirvi da Stato indipendente. Nonostante le aperture commerciali degli ultimi anni, a partire dall’impegno di Antonio Tajani da commissario all’Industria per far restare l’Europa nella partita mineraria, e ai miliardi spesi in compensazione per le quote acquisite sulla pesca, lo sguardo dei sovranisti eschimesi è volto alla Cina, potenza che si definisce «quasi artica» e che ha annunciato da poco lo sviluppo di una Via polare della Seta. La Groenlandia sta diventando il quartier generale di Pechino nel Grande Nord. Nell’isola ha già investito circa venti miliardi di euro, aprendo miniere di zinco e ferro, impegnandosi nella costruzione di tre aeroporti e una grande base «scientifica».
I cinesi nel 2017 sono stati a un passo dall’acquisizione di una base militare danese dismessa se non fosse intervenuto direttamente Washington con un minaccioso comunicato. I ministri inuit sono ricevuti regolarmente al più alto livello dal governo cinese, a Pechino la Groenlandia ha già aperto un’ambasciata, indifferente all’irritazione di Washington e all’indignazione di Copenaghen: sappiamo come l’Occidente sia ben attento a non interferire in Tibet, addirittura a evitare incontri con il Dalai Lama, ma la Cina non si fa scrupoli a operare in Groenlandia come ha fatto in mezza Africa, ignorando lo status di un’isola ancora territorio danese e prima base militare strategica americana nell’emisfero settentrionale.
Sin dai tempi della Guerra Fredda la Groenlandia è stata la garitta del Pentagono in cima al mondo; la base di Thule, a 800 chilometri dal Polo Nord è dotata di un sistema radar per la difesa antimissile in grado di proteggere Stati Uniti ed Europa, ma controlla anche molte operazioni in Medio Oriente (la cattura di Saddam Hussein fu gestita tra i ghiacci). Vittus Qujaukitsoq, annuncia non solo la secessione dalla Danimarca «nel giro di un paio d’anni», ma anche la chiusura delle basi americane e l’uscita dalla Nato. Insomma una situazione shakespeariana, è il caso di dire che c’è del marcio in Groenlandia.
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