Una ricerca dell’Università di Roma, La Sapienza, analizza il dna di 57 popolazioni locali e scopre che la differenza di “patrimonio” tra un sardo e un abitante delle Alpi è maggiore di quella tra un ungherese e un portoghese, distanti migliaia di chilometri. E che il ceppo italico non esiste: lo Stivale è da sempre un porto di mare per le genti. Gli effetti del Risorgimento e del Paese unito non si vedono ancora nella popolazione. La nostra struttura genetica è figlia del Medioevo.. E sulla “razza padana”…

 

Venerdì, 10 gennaio 2014

Altro che Unità d’Italia. A leggere il dna degli italiani, sembra quasi che il Risorgimento non ci sia mai stato e che Garibaldi e i suoi Mille, girando per le campagne abbiamo fatto più un passeggiata che una conquista.
Per non parlare poi del fenomeno immigrazione dal sud al nord d’inizio Novecento: nelle patrimonio dei cittadini tricolore, la massa che dal Meridione si è spostata nell’operoso nord non ha lasciato tracce. L’effetto che si scopre analizzando il dna degli italiani e che la diversità che c’è tra i sardi e le popolazioni delle Alpi è maggiore di quella che c’è tra portoghesi e ungherese, praticamente ortogonali nella geografia europea. Infine, ed è la “mazzata finale” per i teorici delle razze: difficile sostenere che esista un ceppo italico: a leggere le caratteristiche della nostra evoluzione, sembriamo uno dei Paesi in cui l’effetto straniero abbia maggiormente inciso. Insomma, un porto di mare per genti di tute le razze.
A rivelare che duecento anni di unioni e figli e un governo unico del Paese non hanno modificato granché il patrimonio individuale è uno studio coordinato dall’Università di Roma La Sapienza. Un team di ricercatori della Sapienza, coordinato dall’antropologo Giovanni Destro Bisol, in collaborazione con gruppi di ricerca delle Università di Bologna, Cagliari e Pisa, ha messo in luce che le popolazioni italiane sono estremamente eterogenee da un punto di vista genetico, tanto da poter paragonare la loro diversità a quella che si osserva tra gruppi che vivono agli angoli opposti dell’Europa.
L’altra faccia del rovescio della medaglia dello studio è che almeno per quanto riguarda il patrimonio genetico siamo uno dei Paesi più ricchi d’Europa. Non aiuterà lo spread, ma almeno è un record positivo.  
Alla base di questa diversità c’è un motivo comune e cioè l’estrema estensione latitudinale dell’Italia. La varietà degli habitat che si trovano lungo la dorsale della nostra penisola favorisce la varietà di piante e animali ospitati nel nostro territorio. D’altro canto per le sue caratteristiche geografiche l’Italia sin da tempi antichissimi ha rappresentato un corridoio naturale per i flussi migratori provenienti sia dall’Europa centrale sia dal Mediterraneo: nel caso dell’uomo hanno contribuito alle diversità tra popolazioni anche le differenze culturali (in primis linguistiche), creando un ulteriore fattore di isolamento rispetto a quello geografico. In entrambi i casi, il risultato finale è la creazione di un “pattern” davvero unico in Europa.
L’accento sull’importanza degli aspetti culturali non è casuale, ma deriva da quello che i ricercatori considerano un aspetto particolarmente originale del loro studio: avere incluso nell’indagine, oltre a popolazioni ampie e rappresentative di città o di grandi aree (ad esempio L’Aquila oppure Lazio), anche gruppi di antico insediamento come le “minoranze linguistiche” (Ladini, Cimbri, e Grecanici), portatrici di aspetti culturali e sociali peculiari nel panorama italiano.
Sono proprio alcuni di questi gruppi, come nel caso delle comunità “paleogermanofone” e ladine delle Alpi oltre a gruppi della Sardegna, che contribuiscono in maniera determinante alla notevole diversità osservata in Italia. Un dato tra tutti: se si considerano ad esempio i caratteri trasmessi dalla madre ai figli di entrambi i sessi (e cioè il DNA mitocondriale), comparando la comunità germanofona di Sappada, nel Veneto settentrionale, con il suo gruppo vicinale del Cadore, o quella di Benetutti in Sardegna con la Sardegna settentrionale, l’insieme delle differenze genetiche calcolate è di 7-30 volte maggiore di quanto si osserva perfino tra coppie di popolazioni europee geograficamente 20 volte più distanti (come Portoghesi e Ungheresi oppure Spagnoli e Romeni).
“I nostri dati – spiega Giovanni Destro Bisol che ha curato la ricerca – testimoniamo come fenomeni migratori e processi di isolamento che hanno coinvolto le minoranze linguistiche, per la maggior parte insediatesi nel nostro territorio prevalentemente tra il medioevo e il diciannovesimo secolo, abbiano lasciato testimonianza non solamente nei loro aspetti culturali (alloglossia, aspetti della tradizioni e del folklore,) ma anche nella loro struttura genetica”.
“Questo studio ci lascia anche una riflessione che va aldilà della dimensione strettamente scientifica e investe l’attualità” conclude Destro Bisol “…sapere che l’Italia, indipendentemente dai flussi migratori recenti, è stata ed è tuttora terra di notevole diversità sia culturale che genetica, può aiutarci ad affrontare in maniera più serena un futuro pieno di occasioni di incontro con i portatori di nuove e diverse identità”.

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