Siamo di fronte a patrioti veneti, a persone che formano un Comitato di Liberazione Nazionale Veneto invocando norme internazionali, che affermano che l’Italia è uno Stato occupante

 

 

Il Tanko “Marcantonio Bragadin” usato dai Serenissimi nel 1997, alla festa dei Veneti a Cittadella nel 2007 (foto di Semolo75, pubblico dominio)

 

 

 

 

di Alvise Fontanella

24 Dicembre 2020

Processo di Vicenza contro gli indipendentisti veneti del Clnv, il Comitato di Liberazione Nazionale Veneto. L’udienza finale è stata rinviata al 29 gennaio 2021, per l’attesissima arringa dell’avvocato Renzo Fogliata, difensore di Patrizia Badii, la “leonessa” degli indipendentisti veneti, ed egli stesso Presidente dell’Assemblea Nazionale Veneta e stimatissimo studioso di storia della Serenissima. Ma già l’udienza di lunedì 21 dicembre è destinata ad essere ricordata come una pietra miliare nei processi contro l’indipendentismo veneto, che ormai cominciano ad essere molti, e troppo “monumentali”, in questa Italia sedicente democratica.

Le richieste dell’accusa: 60 anni di galera

In questo processo di Vicenza, il pubblico ministero ha chiesto ben 60 anni di galera per 23 dei 26 imputati accusati di associazione per delinquere a fini di istigazione a non pagare le tasse. Un reato, questo, l’incitamento all’obiezione fiscale, che non dovrebbe neppure esistere in un paese normale (come del resto il vilipendio al Tricolore ed altri reati consimili contro la presunta sacralità dello Stato), dopo che la Cassazione sin dal 1989 ha escluso che l’istigazione alla disobbedienza fiscale sia di per sè riconducibile alla generale disobbedienza alle norme di ordine pubblico, prevista e punita dal codice penale.

Infatti la pubblica accusa processa i due tronconi del Cln veneto, quello veronese capitanato da Patrizia Badii, e quello vicentino guidato da Ruggero Peretti, in base a un decreto – mai abrogato – che risale addirittura a prima che la Costituzione repubblicana esistesse: fu emanato infatti il 7 novembre 1947, oltre un mese prima che la Costituzione fosse approvata dall’Assemblea Costituente e poi promulgata dal Capo provvisorio dello Stato.

L’avvocato Tapparo in aula: “E’ un processo alle idee”

“Questo è un processo alle idee – ha detto in aula a Vicenza l’avvocato Cesare Tapparo, difensore di vari imputati -. Non hanno commesso reati: si sono comportati come un Comitato di Liberazione, ideologico, come un ente di diritto internazionale, come l’Olp di Arafat, in base al principio di autoderminazione dei popoli riconosciuto dall’Onu e dall’Italia”. La difesa del Cln Veneto non punta soltanto a negare responsabilità penali, ma chiede di discutere nel processo la piena legittimità delle azioni indipendentiste, alla luce del diritto internazionale.

I fatti, come è sempre accaduto nei processi agli indipendentisti veneti, sono non soltanto ammessi, ma rivendicati con orgoglio. Gli aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale sottoscrivono un atto formale, nel quale, esercitando il loro diritto di autodeterminazione, dichiarano di essere cittadini della Veneta Repubblica, e di rifiutare obbedienza alle norme dello Stato Italiano, che illegittimamente occupa i territori veneti.

In questa veste, gli aderenti al Cln veneto rifiutano ovviamente anche di pagare le tasse allo Stato occupante, e attraverso i famosi “Gruppi di intervento rapido” guidati da Patrizia Badii, organizzano manifestazioni di solidarietà e resistenza fiscale, in soccorso di cittadini sottoposti a procedimenti esattivi, a sfratti o altri procedimenti simili da parte dello Stato italiano, dopo il loro rifiuto di pagare le tasse all’Italia. Nel corso di questi “soccorsi fiscali”, a parte qualche parola volata non si sa da chi, nessun episodio di violenza è mai stato contestato agli indipendentisti.

Le ragioni del Comitato di Liberazione Nazionale Veneto

Il Comitato di Liberazione Nazionale afferma di avere il pieno diritto di agire così, e allega documenti giuridicamente rilevanti: si comincia dal famoso Regio decreto numero 3300, del 4 novembre 1866, quello in base al quale, a seguito del plebiscito truffa, il Regno d’Italia si è annesso il Veneto. Quel decreto, e le norme successive, sono state abrogate nel 2010, con la celebre “legge Calderoli” che ripulì migliaia di norme obsolete. Creando così, secondo il Cln veneto, un vuoto normativo evidente. Il Cln ricorda poi la storica “sentenza Arafat” della Cassazione, che nel 1985 riconobbe al movimento di liberazione dei palestinesi la stessa dignità giuridica di uno Stato.

L’avvocato Fogliata: non sono evasori ma patrioti veneti

“Gli imputati si sono organizzati alla luce del sole in Comitato di Liberazione Nazionale Veneto, che affermano essere soggetto di diritto internazionale, in attuazione del principio di autodeterminazione dei popoli. Citano l’abrogazione del decreto di annessione del Veneto al Regno d’Italia. La pubblica accusa – osserva l’avvocato Renzo Fogliata, difensore di Patrizia Badii – sorvola tranquillamente su queste affermazioni, liquidandole come fossero baggianate indegne persino di una risposta, e limitandosi a inquadrare i fatti, le azioni concrete messe in campo dagli imputati, come se queste azioni fossero scollegate da quella cornice istituzionale, dalle idee e dagli obiettivi politici. Io penso che si debba riconoscere dignità ai loro argomenti. Il pubblico ministero avrebbe dovuto, eventualmente, contestare questi argomenti, spiegare perché non sarebbero validi. Ma non poteva semplicemente liquidarli come fossero favolette”.

 “Insomma – continua l’avvocato Fogliata – qui non siamo di fronte a persone che si rifiutano di pagare le tasse. Siamo di fronte a patrioti veneti, a persone che formano un Comitato di Liberazione Nazionale Veneto invocando norme internazionali, che affermano che l’Italia è uno Stato occupante, e che quindi non vogliono pagare le tasse all’Italia, ma vogliono pagarle alla Veneta Repubblica. Perché – si chiede Fogliata – non dovremmo valutare questi argomenti nel merito? Perché non dovremmo valutarne l’importanza, anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo del reato, visto che gli imputati sono certamente, profondamente convinti di agire con piena legittimità?”.

“Sproporzione tra fatti e pene, è processo politico”

“Sul decreto del 1947 in base al quale la pubblica accusa si muove – rileva Fogliata – ci sono dubbi di costituzionalità, e comunque è impossibile non vedere l’evidente sproporzione tra i fatti che si addebitano e la severità delle pene che si chiedono. Una sproporzione che si ripete costantemente in molti processi a indipendentisti veneti, ai quali per fatti obiettivamente minori vengono contestati reati enormi e invocate pene esagerate. In pratica si fa un processo politico, anche se si nega di volerlo fare”.

Impossibile non pensare al processo ai Serenissimi per l’impresa del Campanile, spettacolare certamente ma innocua per tutti e persino per i masegni della Piazza, oggetto di perizie e sopralluoghi preventivi da parte degli insorti, per essere ben certi che il Tanko non li danneggiasse. Per quell’impresa poetica e politica – se oggi possiamo liberamente parlare di indipendenza veneta, è grazie a loro – i Serenissimi vennero inizialmente accusati di terrorismo e sovversione, vennero imprigionati e uno di loro – Bepìn Segato – soffrì, fino a morirne, della detenzione avvertita come ingiusta.

Il caso della bandiera rubata da Albert Gardin

L’avvocato Fogliata ricorda un episodio: “Fu quando Albert Gardin rubò una bandiera italiana dalla Scuola Granda di San Giovanni Evangelista, a Venezia. La restituì integra, ordinatamente piegata. Per questo fatto, venne chiesta una pena di quattro anni di carcere. Come si fa a dire che questi non sono processi politici, che il giudizio sugli ideali indipendentisti che muovevano le persone non ha portato a valutare in modo sproporzionato la reale gravità dei fatti contestati?”.

E c’è un altro aspetto – osserva Fogliata – che è un classico dei processi politici. Tra le accuse i sono anche presunte offese a uomini della Finanza. Ma il bello è che la pubblica accusa non si è data il minimo daffare per provare, come avrebbe dovuto, che quegli insulti sono effettivamente stati proferiti personalmente dall’imputato al quale li si addebita. Era nel gruppo, gli insulti si sono sentiti, quindi il colpevole è lui. O lei. Eppure, nei mille processi per fatti assolutamente analoghi, svolti contro esponenti di centri sociali, si è avuta ben diversa attenzione a questo aspetto che è essenzialissimo, perché la reponsabilità penale è personale. E quindi se non è provato chi ha effettivamente insultato, l’accusa decade. Perché, quando il processo è contro indipendentisti veneti, si procede comunque?”.

Nel secolo appena trascorso, si sono celebrati processi importanti, processi che hanno fatto la storia, contro il terrorismo vero, quello che sparava e uccideva, quello delle Brigate Rosse. Eppure, in questi processi la Giustizia italiana riconobbe più volte l’attenuante del “particolare valore morale” degli ideali che muovevano la violenza dei gruppi armati. Ancor oggi, a pene scontate, esponenti di quei gruppi sono invitati a convegni e trasmissioni, persino in aule universitarie. Noi ci domandiamo questo: se quegli assassini non vennero e non sono trattati come criminali comuni, perché si pretende di trattare come “evasori comuni” gli indipendentisti veneti, come se lottare con mezzi pacifici per il diritto di autoderminazione del popolo veneto fosse meno nobile che sparare a persone innocenti in nome della rivoluzione comunista?

tratto da: (clicca qui)

2020.10.11 – Scuola di regime

Posted by Presidenza on 11 Ottobre 2020
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Adolf Hitler scrisse nel suo Mein Kampf che i bambini sono il bene più prezioso di un popolo:
“Primo perché la gioventù, appunto in virtù della sua ignoranza, rappresenta quasi sempre il soggetto che meno oppone resistenza e secondo, i bambini di oggi saranno gli adulti di domani e chi li ha veramente conquistati può credersi signore del futuro.”

Suonano doppiamente sinistre queste parole: per il tragico esito del programma educativo nazionalsocialista e per l’eco con cui risuonano nelle aule scolastiche in questi giorni di riapertura delle scuole.

È tristemente noto come le scuole, da quando esistono, siano state usate da ogni regime statuale come principale strumento di propaganda, con lo scopo essenziale di formare individui ad esso conformi e funzionali. E questo è accaduto in forme simili nelle dittature come, seppur con altri contenuti, nelle cosiddette democrazie.
Da sempre la scuola è stato lo strumento con cui il potere di turno ha cercato di costruire una nuova umanità a sua immagine e somiglianza. Nell’Argentina di Videla nelle scuole si veniva addestrati alla delazione verso i propri famigliari; nella Cambogia di Pol Pot i membri delle nuove generazioni, opportunamente indottrinati anche a spezzare i propri legami famigliari, vennero trasformati in spietati agenti della repressione.

Anche questo regime dittatoriale tecno-medico di nuova fattura non manca di vedere nella scuola una delle infrastrutture portanti nell’edificazione della sua nuova umanità.
Il motto Credere-Obbedire-Mascherarsi-Tracciarsi-Distanziarsi-Tamponarsi-Vaccinarsi ha bisogno di un luogo idoneo in cui mutarsi in ideologia interiorizzata.
E quale luogo può fungere a tale scopo meglio della scuola, detenendo essa il monopolio radicale non solo dell’apprendimento e della conoscenza, ma anche e soprattutto del tempo stesso di vita attiva delle nuove generazioni?
Ecco dunque l’istituzione scolastica tramutarsi in campo di addestramento per il nuovo regime di biosicurezza.
Come potranno ora i suoi democratici apologeti continuare a difenderla?
Di quale socializzazione si farà promotrice e di quale società si farà matrice una scuola fondata sul distanziamento?
Che tipo di umanità andrà formando una scuola che fonda la sua nuova pedagogia sulla paura del corpo dell’altro, ridotto simbolicamente ad arma biologica di massa?
Le file di bambini mascherati davanti alle scuole con le braccia tese a misurare la “distanza di sicurezza” dai compagni sono uno spettacolo osceno, degno del peggior regime totalitario.
Come ci ha ricordato Hitler “i bambini di oggi saranno gli adulti di domani e chi li ha veramente conquistati può credersi signore del futuro.”
Nella scuola fondata sul distanziamento si sta costruendo la società del futuro e quella che ad alcuni continua a sembrare un’eccezione sarà la normalità. A ben guardare lo è già. E non si può far finta di non vedere o volgere lo sguardo da un’altra parte. Dopo la segregazione forzata dei mesi scorsi continuano i crimini contro l’infanzia.
La propagandata riapertura delle scuole sta mostrando in questi giorni, oltre alla sua funzione di lungo periodo, anche una funzione di breve termine: quello di tenere viva un’emergenza che non c’è attraverso la giostra dei tamponi e delle quarantene.

Per questo è necessario disertare quell’infrequentabile campo di addestramento cui è stato ridotto la scuola e ricominciare a nominare quello che sembra essere diventato in questi tempi di “emergenza” un tabù: la disobbedienza civile.
È il momento di dire, (e ci sono persone, insegnanti e famiglie, che lo stanno facendo), come Bartleby, lo scrivano di Melville: avrei preferenza di no.
Se il corpo docente, in questi giorni posto davanti a una grande prova di adesione al nuovo regime, (essendo peraltro chiamato a svolgere mansioni non previste da secondini di una sorta di ospedale giudiziario), non riuscirà ad organizzare uno sciopero ad oltranza per ripristinare le già discutibili condizioni lavorative precedenti la dichiarazione dello stato di emergenza, è auspicabile che famiglie e studenti riusciranno a sottrarsi alla cattura totalitaria della nuova scuola.

In questo paese la frequenza scolastica non è obbligatoria per legge. L’istruzione lo è. Ed essa può avvenire legalmente fuori dalla scuola statale, in famiglia o in altri contesti extrascolastici.
“La scuola è morta” scriveva Everett Reimer ai tempi in cui insieme ad Ivan Illich parlava di descolarizzare la società. O forse è solo giunto il tempo di portare la scuola fuori dalla scuola, ovvero al suo significato originario di scholé: ozio, tempo libero da dedicare al piacere dello studio indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico. E chissà che così facendo non si rimuovano finalmente quegli ostacoli che impediscono un cambiamento radicale della società.
Intanto, per dare inizio a questo cambiamento, sottrarre i bambini e le bambine al duro addestramento di biosicurezza che li attende nelle scuole equivale a cercare di impedire ai “signori” del presente di divenire i “signori” incontrastati del futuro.

Bianca Bonavita

tratto da: (clicca qui)

Prof. Francesco Casula: <<Dani Morgan, una ricercatrice boliviana, che sta facendo il dottorato a Cagliari sul tema dell’Indipendentismo sardo, mi ha intervistato. Ecco, di seguito le sue domande con le relative mie risposte.>>

 


1.Perchè professor Francesco Casula, essere indipendentista?

Risposta
L’ipotesi indipendentista, fino a qualche decennio fa demonizzata e criminalizzata, oggi è entrata prepotentemente nel dibattito politico e nelle più alte sedi istituzionali, Consiglio regionale compreso. E certo si può convenire e dissentire. Una cosa però occorre affermare con nettezza: il diritto alla Autodeterminazione dei popoli – e dunque alla Indipendenza e persino alla secessione e separazione – è garantito dal Diritto e da tutte le Convenzioni internazionali. Con buona pace della stessa Costituzione italiana che prevede la repubblica “una e indivisibile”. E anche con buona pace dell’ordinamento giuridico italiano liberticida secondo cui la “secessione” è addirittura un reato (art. 241, Attentati contro la integrità, l’indipendenza o l’unita’ dello Stato) da punire con la reclusione non inferiore a dodici anni.
Del resto, il diritto alla “secessione” è stato praticato negli ultimi decenni – per limitarci solo al Vecchio Continente – da decine di popoli europei, dando vita a nuovi stati con la disgregazione dell’URSS e della Iugoslavia; con la “separazione” della Slovacchia dalla repubblica Ceca ecc.
Il diritto all’autodeterminazione e dunque all’indipendenza del popolo sardo si fonda sul suo essere “nazione”; ovvero sulla sua storia, diversa e dissonante rispetto alla coeva storia italiana. Ed anche europea. Storia che incardina la sua specifica identità culturale e linguistica che non può essere sciolta e dispersa – come fino ad oggi è successo – nel calderone della “italianità”.
La Sardegna è entrata nell’orbita italiana nel 1720 , quando per un “baratto di guerra”, l’Isola passa dalla Spagna al Piemonte. Ritrovandosi una provincia di uno staterello ottuso e famelico, specie dopo la rinuncia all’Autonomia stamentaria nel 1847.
Oggi è arrivato il momento storico di riprenderci la nostra indipendenza nazionale persa.
Perché?
Perché anche, per non dire soprattutto, dopo la cosiddetta Unità d’Italia, la nostra Isola viene considerata, trattata e utilizzata dallo Stato Italiano come una colonia d’oltremare, una colonia interna, in cui alloccare industrie nere e inquinanti (segnatamente quelle petrolchimiche) e stazione di servizio per basi e servitù militari.
L’onere militare che grava sulla Sardegna è enorme: a ribadirlo recentemente è stato lo stesso Presidente della Regione sarda Francesco Pigliaru secondo cui la Sardegna “contribuisce per oltre il 60% del totale nazionale, in termini di presenza militare e gravami, con una popolazione pari al 2%”.
I numeri parlano chiaro: nell’Isola sono oltre 35.000 gli ettari di territorio sotto vincolo di servitù militare. In occasione delle esercitazioni viene interdetto alla navigazione, alla pesca e alla sosta, uno specchio di mare di oltre 20.000 chilometri quadrati, una superficie quasi pari all’estensione dell’intera Sardegna. Sull’isola ci sono poligoni missilistici (Perdasdefogu), per esercitazioni a fuoco (Capo Teulada), poligoni per esercitazioni aeree (Capo Frasca), aeroporti militari (Decimomannu) e depositi di carburanti (nel cuore di Cagliari) alimentati da una condotta che attraversa la città, oltre a numerose caserme e sedi di comandi militari (di Esercito, Aeronautica e Marina). Si tratta di strutture e infrastrutture al servizio delle forze armate italiane o della Nato. Il poligono del Salto di Quirra-Perdasdefogu (nella Sardegna orientale) di 12.700 ettari e il poligono di Teulada di 7.200 ettari sono i primi due poligoni italiani per estensione, mentre il poligono Nato di Capo Frasca (costa occidentale) ne occupa oltre 1.400.
Insomma un’Isola militarizzata. Con enormi porzioni del suo territorio sottratte all’uso civile. Alla coltivazione. Inquinati delle esercitazioni militari con l’utilizzo dell’uranio impoverito, causa di morti per tumore e di malformazioni, per gli umani e gli animali.
Ma la Sardegna non è solo una colonia interna dell’Italia ma anche una “nazione oppressa”, “proibita”, “non riconosciuta” dallo Stato Italiano, emarginata dalla storia, insieme a tutte le altre minoranze etniche del mondo. In Europa al pari dei Baschi, Catalani, Bretoni, Occitani, Irlandesi ecc. Contro cui è ancora in atto un pericolosissimo processo di “genocidio” soprattutto culturale ma anche politico e sociale. Si tratta di “minoranze” che – ha scritto Antonio Simon Mossa, il grande teorico Algherese dell’Indipendentismo sardo moderno – “l’imperiale geometria delle capitali europee vorrebbe ammutolire”.
La Sardegna ha infatti una precisa identità etno-nazionale: per la sua storia; la sua lingua millenaria (per secoli, durante i regni Giudicali, lingua ufficiale e “cancelleresca”), nata secoli e secoli prima dell’Italiano; le sue tradizioni e la sua civiltà.

1. Come definisce l’Autonomia? In che modo è diversa da altri concetti come Federalismo, e Indipendenza?

Risposta
1. Autonomia.
La visione autonomistica dello Stato, è ancora tutta dentro l’ottica dello Stato unitario e centralista – così come in buona sostanza è ancora disegnato dalla Costituzione repubblicana, – che al massimo può dislocare territorialmente spezzoni di potere nella “periferia” o, più semplicemente può prevedere il decentramento amministrativo e concedere deleghe parziali alla Regione, che comunque in questo modo continua ad esercitare una funzione di “scarico”, continua ad essere utilizzata come un terminale di politiche sostanzialmente decise e gestite dal potere centrale; che vede il rapporto Stato-Sardegna in termini asimettrici, di pura e semplice dipendenza, che prefigura da un lato l’accettazione di uno Stato coinvolgente e ancora totalizzante – nonostante qualche timido tentativo di “dimagrimento” – dall’altro la concessione di uno spazio di gestione amministrativa e politica del tutto ininfluente. Insomma, uno scambio ineguale, che pone la Regione in uno stato di marcata inferiorità.
2. Federalismo.
Scrive Emilio Lussu in un saggio del 1933, pubblicato nel n. 6 di «Giustizia e Libertà»: ”Frequentemente accade di parlare con uno che riteniamo federalista perché si professa autonomista e scopriamo invece, che è unitario con tendenze al decentramento”.
E precisa: ”Ora la differenza essenziale fra decentramento e federalismo consiste nel fatto che per il primo la sovranità è unica ed è posta negli organi centrali dello Stato ed è delegata quando è esercitata dalla periferia; per l’altro è invece divisa fra Stato federale e Stati particolari e ognuno la esercita di pieno diritto”.
Quando Lussu parla di sovranità “divisa” fra Stato federale e Stati particolari – o meglio federati, aggiungo io – di “frazionamento della sovranità”, pensa quindi alla rottura e alla disarticolazione dello stato unitario “nazionale” che deve dar luogo a una forma nuova di Stato di Stati, in cui “per Stati non si intendono più gli Stati nazionali degradati da Enti sovrani a parti di uno stato più grande, ma parte o territori dello stato grande elevati al rango di stati membri”: l’intera frase virgolettata è tratta da «Federalismo” di Norberto Bobbio, “Introduzione a Silvio Trentin».
In questa visione federalista il potere sovrano originario e non derivato spetta a più Enti, a più Stati e perciò scompare la sovranità di un unico centro, di un unico potere e soggetto singolare per far capo a più soggetti e poteri plurali. In questa visione la Regione cessa di essere la rappresentanza in sede regionale e periferica dell’Amministrazione statale per diventare l’Ente esponenziale della Comunità sarda.
3. Indipendenza.
Per Sardegna sovrana e indipendente intendo il suo diritto e la sua possibilità e capacità di realizzare l’Autogoverno, l’autodecisione, l’autogestione economica e sociale delle proprie risorse e del territorio, il diritto a usare e valorizzare la propria lingua e cultura, a gestire la scuola, i trasporti, il credito, le finanze e l’ordine pubblico, la possibilità di controllare i grandi mezzi di comunicazione di massa e dell’informazione, di fronte alla quale oggi la Regione è totalmente disarmata e niente può fare perché essi rispondano a criteri di uso democratico e socialmente utile. Il potere infine, nei settori fondamentali quali la difesa e i rapporti internazionali, di decidere in piena sovranità e autonomia.
Porre in questi termini la questione della Nazione sarda, significa a mio parere, pensare alla creazione di un nuovo Stato, separato dallo Stato italiano, in cui storicamente è stato incorporato.
Separazione che non significa isolamento e chiusura in se stesso, e neppure che, in prospettiva, possa rifiutare superiori livelli, anche istituzionali, di integrazione e di interdipendenza, necessari oggi per affrontare i problemi socio-economici, a dimensione continentale e mondiale, connessi:
⦁ alla diffusione delle nuove tecnologie e alla globalizzazione dell’economia e dei mercati;
⦁ al crescente grado di interdipendenza e di integrazione raggiunto dall’economia dei singoli paesi e delle singole aree e regioni;
⦁ al carattere europeo e internazionale assunto dai flussi e dallo scambio di materie prime, di prodotti manufatti, di tecnologie e di capitali;
⦁ all’importanza soverchiante che in tali condizioni acquistano le economie su scala e le imprese che non producono solo per il mercato locale ma per mercati più ampi e lontani.
3.Quando, secondo lei, è nata la questione sarda? Perché è nata?
Risposta
La paternità dell’espressione “Questione sarda” si deve a Gian Battista Tuveri. Intellettuale, politico e scrittore sardo repubblicano, federalista democratico e progressista.
La sua notorietà ebbe inizio ai primi del 1848, in seguito agli avvenimenti succedutisi alla fusione con il Piemonte, con l’abolizione degli antichi istituti autonomi del Regnum Sardiniae e con la concessione dello Statuto Albertino: il Tuveri fu tra coloro che considerarono quelle decisioni – e prima ancora la legge “delle chiudende” e l’abolizione dei diritti feudali – gravi errori che avrebbero aggravato le condizioni economiche e sociali della Sardegna, provocando la rovina del mondo agro-pastorale. Di qui la critica implacabile contro la politica accentratrice e colonialista del Piemonte, di cui la Sardegna “era diventata una fattoria, misera e affamata di un governo senza cuore e senza cervello”.
Con questa espressione si vuole reclamare l’attenzione della politica statale sulle difficoltà dell’Isola, promuovendo il riscatto della Sardegna e del popolo sardo contro uno stato centralista e oppressivo. Che tale sarà soprattutto dopo l’Unità d’Italia.
Questa infatti si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della Penisola e fu realizzata dal Regno del Piemonte, dalla Casa Savoia, dai suoi Ministri – da Cavour in primis – dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud, (il blocco storico gramsciano ), sostenuti dagli inglesi (che con la Massoneria finanzieranno la cosiddetta “Impresa dei Mille di Garibaldi” e la conquista del sud.
Una Unità realizzata contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud; contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.
C’è di più: si realizzerà un’unità biecamente centralista e accentrata, tutta giocata contro gli interessi delle periferie e delle mille città che storicamente avevano fatto la storia e la civiltà italiana. A dispetto del pensiero della gran parte degli intellettuali italiani che durante il “Risorgimento” e dopo furono federalisti e non unitaristi: come appunto Tuveri.
La politica del nuovo stato unitario, centralista e statalista produrrà in Sardegna la devastazione dell’economia, soprattutto dopo la rottura dei Trattati doganali con la Francia nel 1887.

4.Quali sono i principali problemi economici e politici che riguardano la Sardegna?

Risposta
A livello economico:
la Sardegna è caratterizzata dalla “dipendenza” e dallo “scambio ineguale”: importa prodotti (finiti), ad alto valore aggiunto, ed esporta materie prime e prodotti (semilavorati) a basso valore aggiunto: in questo scambio “ineguale” si impoverisce sempre di più, arricchendo, di contro il Nord o comunque i Paesi dove le sue risorse si dirigono. Questo meccanismo ha operato soprattutto nel periodo della cosiddetta industrializzazione petrolchimica.
Con la crisi e la fine della industrializzazione si è chiuso un ciclo più che quarantennale, fatto di promesse ma anche di illusioni programmatorie e petrolchimiche, che ha lasciato in Sardegna, un cimitero di ruderi industriali ma soprattutto disoccupazione, malessere, inquinamento, spopolamento e nuova emigrazione: questa volta di qualità, non come negli anni ’60, dequalificata e generica. Ad abbandonare la Sardegna sono infatti viepiù giovani laureati: risorse preziosissime che potrebbero, qui in Sardegna, mettere a disposizione le loro professionalità e competenze per la ricerca e l’innovazione e che invece sono costretti a emigrare.
Lo spopolamento è certamente uno dei problemi più gravi e acuti che pur già in atto, rischia di diventare drammatico nel prossimo futuro: a causa della crisi, specie occupazionale, dei giovani in particolare. Ma anche perché lo Stato progressivamente sta liquidando tutti i servizi sociali (dalle Scuole alle Poste, agli Ospedali, ecc.).
Con lo spopolamento – che afferisce soprattutto alla Sardegna “interna”, l’Isola rischia di ridursi a una ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato: senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza. Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte.
Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia. Buona solo per ricchi e annoiati vacanzieri, da dilettare e divertire con qualche ballo sardo e bimborimbò da parte di qualche “riserva indiana”, peraltro in via di sparizione.
Si ridurrebbe a un territorio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura, e senza lingua. Disincarnata e sradicata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza identità. Senza popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati (OGM). Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti.
Una Sardegna uniforme. In cui a prevalere sarebbe l’odiosa, omogenea unicità mondiale: come l’aveva chiamata David Herbert Lawrence in Mare e Sardegna.
Si avvererebbe la profezia annunciata da Eliseo Spiga, che nel suo potente e suggestivo romanzo Capezzoli di pietra scrive: “Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Villaggi campagne altipiani livellati ai miti e agli umori di cosmopolis”.
Sarebbe un etnocidio: una sciagura e una disfatta etno-culturale e civile, prima ancora che economica e sociale.
Altro gravissimo problema è quello dei trasporti interni (abbiamo ancora in monobinario per le ferrovie!) e soprattutto esterni, con l’Italia e gli altri Stati. Nonostante la retorica del potere politico statale e regionale, che da decenni strombazzano la “continuità territoriale”, questa è ancora di là da venire.
A livello politico:
La Sardegna è ugualmente caratterizzata dalla “dipendenza”. I partiti italiani in Sardegna rappresentano e costituiscono delle succursali dei Partiti statali e rispondono non ai bisogni dei Sardi ma agli ordini dei loro gerarchi romani, milanesi ecc.
Per utilizzare il lessico di Francesco Masala – il nostro più grande poeta etnico – i Partiti italiani nell’Isola altro non sono che “le la filiali isolane della fabbrica politica italiota, che si limitano a importare nell’Isola i manufatti politici prodotti in Continente: insomma una grave forma di centralismo burocratico, di colonialismo politico-culturale, senza nessun approfondimento né della Questione sarda né della grande lezione del sardismo lussiano”.
Costruire un’alternativa all’insieme della partitocrazia italiota – sostanzialmente il progetto di AutodetermiNatzione – è dunque urgente e necessario per la liberazione nazionale e sociale della Sardegna, iniziando a “rompere” la dipendenza politica ma anche economica e culturale-linguistica.

5.Quali sono stati i principali ostacoli per il movimento indipendentista?

Risposta
Sono soprattutto di ordine culturale. Ma anche psicologico.
Secoli di colonialismo culturale e linguistico hanno dessardizzato e snazionalizzato i Sardi. Per annichilire l’identità etno-nazionale dei Sardi è in atto – secondo Simon Mossa, il moderno teorico dell’Indipendentismo sardo – “un processo forzato di integrazione che minaccia l’identità culturale, linguistica ed etnica, anche con la complicità di molti sardi che si lasciano comprare”. Uno degli elementi che per Simon Mossa devasta maggiormente l’Identità di un popolo è l’attacco alla cultura e alla lingua locale: in Sardegna dunque il divieto e la proibizione della cultura e della lingua sarda, segnatamente dell’uso pubblico del Sardo.
L’ideologo nazionalitario e indipendentista sa bene che un popolo senza Identità, in specie culturale e linguistica, è destinato a “morire”: “Se saremmo assorbiti e inglobati nell’etnia dominante e non potremmo salvare la nostra lingua, usi costumi e tradizioni e con essi la nostra civiltà, saremmo inesorabilmente assorbiti e integrati nella cultura italiana e non esisteremo più come popolo sardo. Non avremmo più nulla da dare, più niente da ricevere. Né come individui né tanto meno come comunità sentiremo il legame struggente e profondo con la nostra origine ed allora veramente per la nostra terra non vi sarà più salvezza. Senza Sardi non si fa la Sardegna. I fenomeni di lacerazione del tessuto sociale sardo potranno così continuare, senza resistenza da parte dei Sardi, che come tali, più non esisteranno e così si continuerà con l’alienazione etnica, lo spopolamento, l’emarginazione economica”
Il pretesto e l’alibi di tale “genocidio” è stato – ed è – che occorreva (occorre) trascendere e travolgere le arretratezze del mondo “barbarico” – per noi Sardi “barbaricino” – le sue superstizioni, le sue “aberranti” credenze, i suoi vecchi e obsoleti modelli socio-economico-culturali, espressione di una civiltà preindustriale e rurale, considerata ormai superata. I motivi veri sono invece da ricondurre alla tendenza del capitalismo e degli Stati – e dunque delle etnie dominanti – a omologare in nome di una falsa “unità”, della globalizzazione dei mercati, della razionalità tecnocratica e modernizzante, dell’universalità cosmopolita e scientista, le etnie marginali e con esse le loro differenze, in quanto portatrici di codici “altri”, scomodi e renitenti, ossia reverdes (ribelli).
Cancellata la nostra storia, recisa la nostra lingua (ad iniziare dalla Scuola ufficiale dello stato italiano), senza più difese, è più facile dominarci e assoggettarsi anche psicologicamente, azzerando la nostra autostima e, facendoci credere che solo dall’Italia e da fuori, possiamo aspettare la nostra liberazione. Perché da soli, da noi stessi non possiamo avere garantita neppure la nostra esistenza e la nostra vita.
Si sentono persino simili piacevolezze: se diventiamo “indipendenti” e ci separiamo dall’Italia, chi potrebbe garantire le nostre pensioni?

6.Perché pensa che i partiti italiani abbiano avuto più successo in Sardegna rispetto al movimento indipendentista?

Risposta
Perché detengono da sempre il potere. Non solo quello politico, burocratico e amministrativo ma quello culturale. Hanno occupato manu militari le Università; gli Enti di qualsivoglia genere: ad iniziare da quelli bancari. Hanno i “loro” Sindacati, ad iniziare da CGIL-CISL-UIL.
Attraverso questi Enti controllano e dirigono l’opinione pubblica, distribuiscono posti di lavo (per la verità sempre meno, specie con la crisi fiscale dello Stato), prebende, mance e dunque nelle elezioni raccolgono il consenso popolare.
Inoltre posseggono ingenti risorse economiche e finanziarie provenienti non solo dai plurimi finanziamenti pubblici ma da sostegni privati (spesso illegali, con le tangenti).
Si sono sostanzialmente “impadroniti” dei grandi mezzi di comunicazione di massa: grandi Quotidiani e Giornali, TV, pubbliche e private: attraverso di essi condizionano e indirizzano l’opinione pubblica e il consenso elettorale.

7.Qual sarebbe la strategia migliore per avanzare la questione dell’indipendenza a livello popolare? Come cercare di coinvolgere i Sardi che si sentono emarginati?

Risposta
Attraverso una capillare, ubiquitaria e diffusa controinformazione culturale e politica: senza limitarsi ad agitare al vento facili slogan o discorsi che non riescono a far muovere i mulini per macinare grano.
L’importante sarà fare le cose non limitarsi a denunciarle, sperimentare e non solo predicare, praticare l’obiettivo, praticare scampoli di indipendenza e non aspettare l’ora x in cui questa si raggiungerebbe.
L’importante è incrociare la gente, i lavoratori, i giovani, costruire trame che organizzino e compattino i soggetti sui bisogni, gli interessi, la crescita culturale e civica, favorendo l’autorganizzazione dei cittadini e il protagonismo sociale, i contropoteri polari.
Ma soprattutto occorrerà che gli Indipendentisti si diano una “visione”, una cultura alta e “altra”. Con la valorizzazione e l’esaltazione delle diversità, ovvero delle specifiche “Identità”: certo per aprirsi e guardare al futuro e non per rifugiarsi nostalgicamente in una civiltà che non c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, il recupero della nostra prospettiva esistenziale: la comunità e i suoi codici etici basati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo/persona incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità. E insieme per percorrere una “via locale” alla prosperità e al benessere e partecipare così, nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali. Convinti e consapevoli che la standardizzazione e l’omologazione, insomma la reductio ad unum, rappresenta una catastrofe e una disfatta, economica e sociale ancor prima che culturale, per gli individui e per i popoli. Omologazione che annulla progressivamente le specificità: ibernandole nella bara della tecnica, del calcolo economico, del mercato, della mercificazione.
8.Pensa che l’Unione Europea abbia un ruolo da svolgere nelle lotte per l’autodeterminazione? Come descriverebbe la posizione della Sardegna in Europa?
Risposta
L’attuale Unione Europea è nemica dei popoli che nel Vecchio Continente si battono per l’Autodeterminazione e per l’indipendenza: basti pensare alla sua posizione nei confronti dei Catalani.
La UE è oggi l’Europa degli Stati (anzi degli Stati forti, ad iniziare dalla Germania) non dei popoli. E’ l’Europa delle banche, della finanza, delle multinazionali, dei burocrati e autocrati. E’ un’Europa anti sociale e antidemocratica, egoista e antisolidarista, da cui niente c’è da aspettarsi.
Occorre dunque battersi per un’Europa radicalmente diversa: democratica, sociale, solidale, ecologica, aperta; un’Europa dei diritti: sociali oltre che civili. Che metta al primo posto, valorizzandole, le identità peculiari dei popoli: ad iniziare dalle loro lingue native.
All’interno di questa Europa rinnovata completamente la Sardegna entrerebbe a pieno diritto, con la sua storia, le sue tradizioni, le sue produzioni materiali e immateriali. Per dare e ricevere. Confrontandosi. Contaminandosi. Arricchendosi.
9.Pensa che la questione della lingua sia una parte indispensabile per la lotta per l’indipendenza?
Risposta
Certamente sì. Il già citato Francesco Masala era solito affermare che: A unu populu nche li podes moer totu e sighit a bivere, ma si nche li moes sa limba si nche si nche morit (a un popolo puoi togliere tutto e continua a vivere, ma se gli togli la lingua , muore).
La nostra lingua, il sardo è infatti la più forte ed essenziale componente del nostro patrimonio ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari, e sta a fondamento dell’identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazione e come popolo. Essa affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea.
Nell’epoca della globalizzazione, il rapporto fra le lingue è un banco di prova – e anche una grande metafora – del rapporto fra le culture. Comunicare restando diversi, ascoltare l’altro senza rinunciare alla propria pronuncia, essere radicati in una tradizione senza fare di questo, un elemento di separatezza o di esclusione o di sopraffazione: il rapporto fra le lingue – la compresenza attiva di moltissime lingue – dimostra che è possibile tendere alla comprensione salvando la differenza.
Nella nostra epoca, come muoiono specie animali e vegetali, così anche molte lingue si estinguono o sono condannate alla sparizione. Per ogni lingua che muore è una cultura, una memoria ad essere abolita. Un universo di suoni e di saperi a dileguarsi. Preservare allora le specie linguistiche – nonostante le migrazioni, le egemonie mercantili, le colonizzazioni mascherate – dovrebbe essere il primo compito dell’ecologia della cultura e del sapere.
L’idea di una lingua unica perduta è solo un sogno: un frivolo sogno lo definiva già Leopardi nello Zibaldone. E anche l’idea che sia necessaria una lingua unica che permetta a tutti di intendersi immediatamente non riesce a nascondere il disegno egemonico: disegno che è in particolare di ordine mercantile. Anche perché,: a cosa servirebbe – si chiede il Professor Sergio Maria Gilardino, docente di letteratura comparata all’Università di Montreal (Canada) e grande difensore delle lingue ancestrali – conoscere e parlare tutti nell’intero Pianeta la stessa lingua, magari l’inglese, se non abbiamo più niente da dirci, essendo tutti ormai omologati e dunque privi e deprivati delle nostre specificità e differenze?
Ma c’è di più: certi programmi “internazionalisti”che prevedono una unificazione linguistica dell’umanità e una scomparsa delle nazionalità, quando non sono inutili esercitazioni retoriche, sono in genere la mistificazione di concezioni sciovinistiche, o addirittura nascondono intenzioni di genocidio culturale di derivazione imperialistica.
Le lingue imposte via via dai colonizzatori hanno sbaragliato e mortificato e distrutto le forme e l’energia inventiva delle lingue locali. Il controllo politico, le ragioni di mercato, i progetti di assimilazione hanno sacrificato tradizioni e culture, suoni e nomi, relazioni profonde tra il sentire e il dire. E tuttavia più volte è accaduto che quelle culture vinte abbiano attraversato le lingue egemoni irrorandole di nuova linfa creativa: è quel che è accaduto meravigliosamente nelle letterature ibero-americane, è quel che accade oggi nelle letterature africane di lingua portoghese, inglese e francese o nella letteratura nordamericana o in quella inglese. Inoltre le migrazioni hanno dappertutto esportato saperi, confrontato stili di vita e di pensiero, contaminato linguaggi e sogni e memorie. Molti poeti e scrittori del ‘900 appartengono a una storia di migrazioni tra le lingue: da Elias Canetti a Paul Celan, da Vladimir Nabokof a Iosif Brodskij, da Isaac Bashevis Singer a Salman Rushdie, da Witold Marian Gombrowicz a Vidiadhar Suraiprsar Naipaul.

tratto da: (clicca qui)

 

 

Francesco Casula nasce a Ollolai (NU). Dopo gli studi medi-superiori fatti dai Gesuiti, -frequenta il Liceo “Sociale” di Torino, dove studiò Cesare Pavese- a Roma nel 1970 si laurea in Storia e Filosofia.

Dopo aver insegnato a Macomer (prima Storia e Filosofia nei licei poi Italiano e Storia nell’Istituo tecnico e per geometri) si trasferisce a Cagliari dove insegna per più di trent’anni Italiano e Storia negli Istituti superiori, soprattutto –negli ultimi 30 anni-  al “Martini” di Cagliari.

La sua prima esperienza politica –dopo gli anni del ’68 vissuto a Roma- la fa con l’MPL (Movimento politico lavoratori) di Livio Labor, già Presidente delle ACLI, in cui nel 1972 si candida alle elezioni politiche a soli 26 anni. Nello stesso anno a Macomer fonda il Circolo politico-culturale “Camillo Torres” in onore del sacerdote cattolico colombiano guerrigliero, morto combattendo le unità antiguerriglia governative.

Al circolo aderiscono soprattutto studenti e insegnanti con cui poi entrerà nel PDUP (Partito di unità proletaria) che confluirà in Democrazia Proletaria di Mario Capanna, Vittorio Foa e altri.

Per circa un decennio sarà leader in Sardegna di questo partito della Nuova Sinistra che soprattutto grazie alla sua opera ben presto si “sardizzerà” diventando Democrazia proletaria sarda, autonomo da Dp Italia e a questa federata.

Sciolta Dp sarda, per qualche anno aderirà al Partito sardo d’azione (di cui sarà il responsabile nazionale del Settore scuola) ma soprattutto lascerà la CGIL-scuola –di cui a Macomer era stato uno dei fondatori- per iscriversi alla Confederazione sindacale sarda (CSS) il sindacato etnico sardo fondato da Eliseo Spiga.

Nella CSS diventerà responsabile della Federazione scuola poi segretario nazionale aggiunto e quindi Segretario nazionale generale.

Dimessosi da segretario nazionale della CSS –in continua la sua militanza- e abbandonato il PSD’AZ si dedica soprattutto ad attività culturali, pubblicistiche ed editoriali, in cui attualmente è impegnato.

E’ giornalista pubblicista dal 1989 ed è regolarmente iscritto all’Albo dei giornalisti pubblicisti

E’ stato collaboratore del Quotidiano sardo “L’Unione Sarda” per i problemi della scuola e attualmente scrive ancora su questo quotidiano nella pagina dedicata ai Commenti.

Scrive in Lingua italiana e  in Lingua sarda anche per il Quotidiano Il Sardegna, –dove ogni Sabato tiene una rubrica “Memorie”; per il periodico Sa Repubblica sarda; per la Rivista “Camineras” di Sassari; per Lacanas, rivista bilingue delle identità, fondata e diretta da Paolo Pillonca.

E’ attualmente Direttore Responsabile e redattore

di “Liberatzione sarda“,periodico bilingue;

di  “Madiapolis” periodico degli studenti universitari di Cagliari.

Negli anni passati è stato direttore responsabile de “Il Solco” il prestigioso giornale del PSD’AZ e di Emilio Lussu;

del periodico bilingue della Confederazione sindacale sarda “Tempus de Sardinnia“;

di “Liberamenti” periodico di Quartucciu,

di “Clacson” periodico di Dolianova;

di “Saturru” periodico di Selargius.

E’ stato per più di un anno redattore-opinionista del Quotidiano sardo “Sardigna.com”.

Ha complessivamente scritto circa mille articoli su riviste, periodici e quotidiani sardi e italiani, in lingua sarda e in lingua italiana.

 

2020.02.27 – ACCORDO MLNS/MPICN

Posted by Presidenza on 27 Febbraio 2020
Posted in articoli 

Riconoscimento reciproco e accordo di deposito all’ONU per il riconoscimento di Popoli Indigeni tra MLNS/GSP e Muvimentu Politicu Indipendenza a Corsica Nazione 

 

ACCORDO MLNS – MPICN

 

 

 

 

Grandissimi patrioti veneti. WSM!!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

10 FEBBRAIO 2020

PADOVA. Una Suzuki con una strana targa sta attirando l’attenzione a Sant’Ambrogio, frazione di Trebaseleghe, Alta padovana. Tutti pensano che sia straniera, in realtà si tratta di un veicolo “indigeno”, di proprietà della Serenissima. Lo conferma Nicola Semenzato, piccolo commerciante di auto del posto, nella cui proprietà è parcheggiata. 

«Il veicolo è di proprietà del Governo veneto, le targhe sono autorizzate e immatricolate alla motorizzazione dello Stato Veneto» dichiara Semenzato. «Il mezzo è parcheggiato a casa mia perché ho il posto tenerlo ma fino a dieci giorni fa circolava regolarmente, lo guidava il nostro funzionario ed è stata fermato anche a Padova. A me non interessa che venga fotografato o messo in piazza, anzi. E non è la sola auto di proprietà dello Stato Veneto, ce ne sono anche altre. Una era stata sequestrata e poi dissequestrata, abbiamo i documenti. Le forze dell’ordine (italiane, ndr) non sono ancora pronte per questa situazione» commenta Semenzato, che simpatizza per i venetisti ma non è un attivista.

«Confermo, è stata immatricolata nello Stato Veneto dele Venesie per conto della Serenissima Nasion Veneta della Venesia e ne immatricoleremo altrettante» assicura Roberto Fongaro, che si definisce funzionario della motorizzazione dello Stato Veneto. «Certo che possiamo circolare, siamo nel nostro territorio, siete voi italiani abusivi nel territorio veneto. Dovete guardare bene le vostre normative perché l’Italia è un’azienda e le vostre normative sono illegittime nel territorio veneto. Noi non usiamo la legge italiana, abbiamo i nostri documenti, la nostra nazionalità, le nostre residenze, i nostri catasti. È uno stato e a marzo avremo anche la nostra moneta. Di italiano non voglio sapere niente, l’abbiamo comunicato a tutto il mondo. Adesso stiamo facendo passi importanti a livello internazionale».

L’auto con targa veneta messa sequestrata tempo fa era una Fiat Stilo. «È successo a Cerea, nel Veronese, poi ci è stata restituita perché hanno riconosciuto che siamo un’altra entità. Abbiamo i verbali del Tribunale di Verona con tanto di sentenza» dichiara Fongaro. Che ammette di essere stato fermato al volante di un’auto veneta. «Mi hanno fermato tante volte, mi hanno minacciato di sequestrarla ma non l’hanno mai fatto. Io ero solo il conducente perché la macchina è dello Stato Veneto e perché loro sono in difetto di giurisdizione, non hanno potere», dichiara, «con la Suzuki ho corso 2 anni, sempre con quelle targhe, sono nel mio territorio, a Noale e comunque con quell’auto sono andato dappertutto. Ora l’ho parcheggiata lì perché ne ho un’altra e sto facendo le ultime pratiche. Poi la immatricolerò nello Stato Veneto e vi applicherò le targhe venete della Suzuki perché le targhe sono personali».

Ma che succede se l’auto veneta viene trovata priva di bollo? «Quello che succede a tutti, ma non hanno giurisdizione». E in caso d’incidente come la mettiamo con l’assicurazione? «L’auto è diplomatica, lo Stato Veneto fa da garante, ha la sua moneta e pagherà con la moneta come paga lo Stato italiano».

Ma allora c’è la doppia immatricolazione? «Ripeto che è immatricolata nello Stato Veneto non in Italia» si spazientisce Fongaro «se non si conoscono le normative meglio andare a documentarsi, tutti i Comuni hanno la dichiarazione di indipendenza». 

TARGHE PERSONALIZZATE La domanda che si stanno ponendo diversi commentatori, anche sui social che fanno riferimento alla galassia venetista, è se questo tipo di targe sia legale o meno in Italia. Ebbene la risposta è no. Non esiste la possibilità di intestare la targa a sedicenti istituzioni che, come lo “Stato veneto dele Venesie” non esistono.

Per la verità, in teoria l’Italia ha ammesso la liceità delle targhe personalizzate, cioè composte da lettere e numeri scelti dall’intestatario, addirittura da 17 anni (Dlgs 9/2002, che introdusse nell’articolo 100 del Codice il comma 8). Ma mancano le norme attuative: a parte le difficoltà pratiche, si è reputato che interessasse a pochi. Di per sé, la personalizzazione della targa sarebbe molto allettante. Perciò consentirebbe allo Stato di guadagnarci su, fissando prezzi anche di centinaia o migliaia di euro. Ma lo stesso Stato si è tarpato le ali: il comma 8 limita fortemente la personalizzazione, imponendo che la sequenza alfanumerica resti in ogni caso di due lettere, seguite da tre numeri, seguiti da altre due lettere. A quanti può interessare?

Anche se la normativa non ne fa menzione, lascia comunque intendere che anche a livello di colori la targa personalizzata deve rispecchiare quella tradizionale, quindi fondo bianco rifrangente, lettere e numeri neri, bande blu laterali contenenti logo italiano, anno di immatricolazione e città.

ALL’ESTERO Se entrasse in atto, la norma sulle targhe personalizzate consentirebbe all’Italia di allinearsi ad una pratica già possibile in molti paesi, a cominciare proprio dagli States, dove circolano 9,7 milioni di veicoli con una targa personalizzata. Lo Stato degli USA dove sono più diffuse è la Virginia, dove la pratica costa appena 10 dollari, mentre ne servono più di 100 a Whashington DC.

Anche la Germania consente le personalizzazioni, basta pagare una sovrattassa di circa 10 euro, ma si può scegliere solo la coda alfanumerica dopo la sigla identificativa del circondario.

Negli Emirati Arabi, dove le targhe generiche prevedono cinque numeri, è possibile scegliere particolari combinazioni o ridurre il numero stesso delle cifre. In Australia, invece, lo Stato del Queensland ha da reso le emoticon legali: le “faccine” disponibili per ora sono 5, tutte sorridenti.

SANZIONI Cosa succede dunque in Italia a un’auto che venga vista circolare con una targa come quella dei venetisti? La risposta la dà il comandante della Polizia locale della Federazione del Camposampierese, Antonio Paolocci: “Se l’automezzo non è regolarmente immatricolato, con targa regolare, e ciononostante circola in strada, viene sequestrato e affidato in custodia al proprietario, che deve pagare anche una sanzione amministrativa”. 

Giusy Andreoli

tratto da: (clicca qui)

 

2020.02.03 – Coronavirus, la Cina sa che il Pentagono prepara la guerra

Posted by Presidenza on 3 Febbraio 2020
Posted in articoli 

Giulietto Chiesa: <<dai dementi non ci si può aspettare nulla di buono né di rassicurante>>

 

Paolo Liguori, direttore di TgCom24, ha detto che il coronavirus sarebbe uscito da un laboratorio militare cinese di Wuhan? Siamo alle prese con mille incertezze: non possiamo ancora fare affermazioni precise. Illustri virologi, tra cui Burioni, ritengono che il vettore originario possa essere un pipistrello. “Ritengono”: prove, non ce ne sono. Altra questione: Xi Jinping è sincero oppure no? La mia tesi è questa: il problema è troppo grande, perché Xi Jinping possa scherzare, su questo, o far finta di niente. Il problema colpisce la Cina duramente, la colpirà ancora più duramente e ci colpirà tutti. Non credo sia possibile pensare che il presidente cinese sia un irresponsabile. Credo che Xi Jinping ci abbia detto la verità, o meglio quello che sa lui. Non sono sicuro che tutto quello che sa Xi Jinping sia la verità: la stanno cercando, anche loro. In secondo luogo, credo che qualunque alto dirigente cinese non possa ignorare che, nei documenti ufficiali del Pentagono, c’è scritto – nero su bianco, e in modo esplicito – che la Cina, insieme alla Russia, è un nemico decisivo degli Stati Uniti d’America. In questi documenti, ufficialmente presentati al Parlamento, il Pentagono aggiunge che gli Stati Uniti devono «prepararsi a una guerra imminente» con la Cina.

Hanno ragione? Hanno torto? Non è importante. L’importante è che lo dicano, che gli Stati Uniti si stanno preparando a una guerra “imminente” con la Cina, che «implicherà grandi perdite per la stessa popolazione civile degli Stati Uniti». Sono cose che cito da un documento ufficiale del Pentagono, sottoposto al giudizio e al voto del Senato degli Stati Uniti e della Camera dei rappresentanti. Quindi: se io fossi un dirigente cinese, potrei trascurare questo fatto? No, ovviamente. Dobbiamo trascurarlo, noi? Non credo: è uno dei fattori del problema, e quindi dovrà essere tenuto sotto la lente d’ingrandimento, con la massima attenzione. C’è chi pensa che qualcuno, per conto degli Usa, possa essersi “lasciato scappare” quel virus per mettere in ginocchio quello che è il maggior competitore economico dell’America a livello mondiale? Come si sa, io non nascondo una mia precisa opinione: ritengo che il gruppo dirigente degli Stati Uniti sia dominato da un gruppo di dementi. Lo ritenevo prima dell’attuale presidente, e lo ritengo tuttora. Dico “dementi”, perché tutti i loro atti conducono a una situazione di guerra, nel mondo. Quindi, di fronte a un caso come quello del coronavirus, non posso dimenticare quello che penso. Insisto: penso che siano dei dementi, e dai dementi non ci si può aspettare nulla di buono né di rassicurante.

Mi limito a questo, perché non conosciamo con precisione la situazione. Posso semmai aggiungere una considerazione che ci riguarda da vicino. In tanti, ormai, stanno cominciando a capire che stiamo vivendo in un mondo assolutamente vulnerabile. A prescindere da tutte le teorie e dalle ipotesi che si possono fare, su quello che sta accadendo, davanti ai nostri occhi dovrebbe balenare, chiara come il sole, la constatazione che questo mondo è straordinariamente vulnerabile. Se ad esempio le cose che stiamo vedendo in questo momento dovessero andare male, noi ci troveremmo di fronte a un mondo radicalmente diverso, da quello che conosciamo, e questo avverrebbe nello spazio di poche decine di settimane. Di fronte a emergenze di questo tipo siamo tutti impreparati, a partire da chi deve prendere le decisioni. Quello che vediamo dice che le cose accadono più velocemente di quanto l’organizzazione economica, politica, sociale e militare del paese sia in grado di fronteggiare. Siamo colti di sorpresa, clamorosamente. Quando è stata proclamata la chiusura del collegamento Cina-Italia, erano già in volo 5 aerei italiani appena decollati dalla Cina. Che ne è stato, di quei passeggeri (italiani e cinesi) virtualmente a rischio di contagio? Sono stati posti in stato di osservazione?

Tralasciando le polemiche, il fatto è che stiamo vivendo in una società vulnerabile – che è anche impazzita, visto che non è in grado di governare se stessa. E questo dovrebbe porre dei problemi, al governo delle grandi corporation e dei grandi Stati. Possiamo andare avanti in questa direzione senza introdurre dei cambiamenti radicali, in tempi rapidi? Su La7, Mentana si è scandalizzato per l’ultima indagine sociologica dell’Eurispes, secondo cui il 15% degli italiani non crede all’Olocausto, ritiene che la Shoah sia stata un’invenzione (o comunque un’esagerazione). Ma perché tanto sdegno? Caro Mentana, chi è il responsabile del fatto che il 15% degli italiani non sa niente della storia della Seconda Guerra Mondiale? Ma siete voi, che avete fatto la televisione. Siete voi, che avete dato la disinformazione. E adesso, Mentana, ti stupisci che il 15% degli italiani non ti creda? Ma tu agli italiani hai raccontato un sacco di bugie, in tutti questi anni. E non li hai formati, non li hai informati, non ti sei scandalizzato per la loro ignoranza. E così anche adesso, di fronte all’evidenza di un collasso organizzativo e intellettuale della società in cui viviamo, c’è ancora gente che dice che è tutto normale, e che le cose devono andare avanti così.

Giulietto Chiesa

tratto da: (clicca qui)