La Grecia è stata usata, anche (non solo come la vittima sacrificale da esibire sulle piazze d’Europa, come l’avvertimento, come la gogna che attende tutti coloro che osassero ribellarsi in futuro), come una mazza ferrata per imporre la volontà dei banchieri tedeschi a tutti gli altri paesi.
Per la terza volta, nella sua storia moderna, la Germania mette a repentaglio la pace nel continente

 

di Giulietto Chiesa

Di fronte allo spettacolo di barbarie offerto dalla Germania nell’accanirsi contro Atene, nell’ambito della più grave crisi nella storia dell’Ue, anche Giulietto Chiesa – diffidente verso i No-Euro e a lungo incline a concepire una prospettiva politica di revisione democratica dell’Unione Europea – si arrende all’evidenza: Bruxelles non è solo una gang di tecnocrati prezzolati e “maggiordomi” dei poteri forti, messi lì per spremere paesi e popoli in nome del dominio del business finanziario. E’ anche una cosca spietata e sanguinaria, apertamente anti-europea, pronta a calpestare la stessa possibilità di sopravvivenza dei greci. «L’Unione Europea è un’associazione a delinquere», disse senza mezzi termini Marshall Auerback, economista del Levi Institute di New York, di fronte al “golpe dello spread” che a fine 2011 portò all’insediamento di Mario Monti in Italia, l’uomo scelto dalla finanza, con la collaborazione di Napolitano, per imporre il celebre diktat della Bce (Draghi e Trichet) con brutali “riforme” come quella della Fornero sulle pensioni. Nemmeno quattro anni dopo, l’aggravarsi della crisi europea – complicata dalle inaudite tensioni belliche con la Russia in Ucraina – sta determinando contraccolpi politici, psicologici, culturali: questa «non è più Europa», si sente ripetere da più parti.

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Wolfgang Schaeuble

 

In realtà, questa “non è mai stata Europa”, replicano i critici dell’europeismo franco-tedesco. Secondo Paolo Barnard, autore de “Il più grande crimine” (saggio che illumina, con anni di anticipo rispetto alla catastrofe odierna, la genesi dell’euro come strumento di dominio dell’élite finanziaria a spese degli Stati e dei popoli) l’Unione Europea non è mai stata altro che questo: pura confisca di democrazia, senza contropartite di alcun genere. Confisca istituzionalizzata mediante organismi non elettivi, espressione diretta del “vero potere” neoliberista nemico del welfare e persino dello Stato di diritto. Un regime ideologico che in Europa si è alimentato anche con teorie risalenti all’800, l’economia neoclassica (pagare i lavoratori il meno possibile) e il tragico mercantilismo tedesco (la vocazione all’export, che comprime i salari e deprime la domanda interna). La fobia teutonica dell’inflazione, di hitleriana memoria, si è saldata con la demonizzazione del debito pubblico, che invece è il motore naturale dell’economia espansiva (se il debito è denominato in moneta nazionale). E’ semplicemente sconcertante, sostiene il politologo Aldo Giannuli, che la sinistra europea non si sia mai accorta del “mostro” cresciuto a Bruxelles; ovvio, quindi, che oggi non abbia proposte, perché qualsiasi vera alternativa democratica comporterebbe innanzitutto la denuncia dell’Ue e del suo braccio secolare, l’euro, come strumenti di pura dominazione antipopolare.
Peggio ancora: proprio la sinistra ufficiale – da Mitterrand in poi – ha conferito il massimo supporto al progetto europeista, ben sapendo che la “disciplina di bilancio” indotta fisiologicamente da una non-moneta come l’euro avrebbe causato tagli devastanti alla spesa sociale e abrogazione di diritti e conquiste storiche. Quello che accade oggi in Grecia, dunque, non è che una logica conseguenza, il modus operandi “naturale” di un impianto oligarchico di potere, che non guarda in faccia a nessuno. Proprio la ferocia dimostrata contro Atene, per giunta “colpevole” di aver osato sfidare il regime di Bruxelles con un referendum, finisce per scuotere anche chi aveva sperato in una residua quota di ragionevolezza, se non altro per evitare di consegnare il continente a una pericolosa deriva incarnata da populismi ultra-nazionalisti, spesso xenofobi e neofascisti. «Sono in molti a dire apertamente che ciò che si è consumato a Bruxelles il 13 luglio 2015 è stato un “colpo di Stato”», scrive Chiesa su “Sputnik News”. Un golpe, «realizzato con strumenti finanziari, con un ricatto dei forti contro i deboli, che implica e si regge su un atto di forza, su un’imposizione illegittima».

2

 

Proteste ad Atene contro la Germania

 

Per il giornalista, autore del profetico libro-denuncia “La guerra infinita” che illustrò con anni di anticipo il piano egemonico dei neocon statunitensi e le “guerre americane” puntualmente condotte negli ultimi anni, la crisi fra Berlino e Atene «è l’inizio della fine dell’Europa come entità che si proponeva di essere unitaria e si rivela ora un’accozzaglia di egoismi, che non è nemmeno possibile definire “nazionali”, poiché sono stati dettati dalla frenesia del guadagno delle élites bancarie internazionali». Questa è ormai «un’Europa senza solidarietà e divisa, spaccata. Con la Germania (ma che dico?, con una parte della Germania; ma che dico?, con un partito tedesco – la Cdu-Csu – guidato da un ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, che combatte contro la premier del suo partito Angela Merkel) che si trascina dietro sei Stati dell’est, tutti antieuropei in sostanza, e che pretende di fare la lezione a tutta la restante Europa, per costringerla ad accettare il modello tedesco». Giulietto Chiesa cita l’ex ministro greco Yanis Varoufakis: la vera posta in gioco non è Atene ma Parigi, perché il piano degli oligarchi tedeschi consiste nel «mettere il timore di Dio nei francesi, costringendo la Grecia a uscire dall’euro».
Dunque, conclude Chiesa, «la Grecia è stata usata, anche (non solo come la vittima sacrificale da esibire sulle piazze d’Europa, come l’avvertimento, come la gogna che attende tutti coloro che osassero ribellarsi in futuro), come una mazza ferrata per imporre la volontà dei banchieri tedeschi a tutti gli altri paesi». Quella di Bruxelles, allora, è «un’Europa che si comporta come un branco di lupi». Sicché, «questa Europa finisce, insieme alla Grecia indipendente e sovrana». Una constatazione che «dovrebbe aprire una riflessione a tutte le forze europee, democratiche e che vogliono conservare le loro sovranità nazionali, sulla “questione tedesca”». Attenzione: «Per la terza volta, nella sua storia moderna, la Germania mette e repentaglio la pace nel continente. Un’Europa senza Germania è sempre stata impensabile. Ma una Germania che non è in grado di moderare la sua pulsione al dominio diventa il nemico di ogni idea europea comune».

3

 

Tsipras e Juncker

 

Per quanto concerne la Grecia, la soluzione imposta a Tsipras, «mostruosa sotto ogni profilo», non è che «una tappa verso un disastro, non solo economico: è l’esistenza stessa della democrazia che è stata annientata», costringendo i greci ad accettare un piano economico peggiore di quello che, col referendum, avevano rifiutato. «Perfino la proprietà privata, dei singoli e dello Stato, è stata cancellata. Con totale impudenza, quella del vae victis – continua Giulietto Chiesa – la Germania ha preteso il controllo diretto di 50 miliardi di euro di proprietà greche attraverso il Kfw (Kreditanstalt Fur Wiederanfbau, Istituto di Credito per la Ricostruzione), che altro non è che una banca tedesca (80% dello Stato e 20% dei laender) e il cui presidente è Wolfgang Schäuble».
Peraltro, proprio la Kfw (la “Cdp” tedesca) è lo strumento col quale la Germania ha regolarmente aggirato le restrizioni sull’euro, acquisendo moneta praticamente a costo zero per finanziare il governo – la Kwf è giudiricamente privata, ma di fatto pubblica. Nessuno, però, si è mai permesso di far osservare ai tedeschi che stavano barando: hanno imposto il costo dell’euro a tutta l’Eurozona (moneta che ogni paese ottiene con l’emissione di titoli di Stato, attraverso il sistema bancario privato), mentre Berlino, sottobanco, ha trovato il modo di finanziarsi impunemente in modo assai più economico. Inutile, quindi, aspettarsi che simili “statisti” potessero fare la benché minima concessione sulla indispensabile ristrutturazione del debito greco, «che è un debito illegale e estorto con l’inganno e con la complicità dell’Europa e della Germania», ricorda Giulietto Chiesa. «Non c’è più nemmeno l’ombra dell’economia di mercato: questa è rapina e violenza allo stato brado».

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Nestor e Cristina Kirchner

 

Paul Krugman, Premio Nobel per l’economia, ha spesso tuonato contro i “maghi” dell’austerity europea, che impongono solo e sempre ricette disastrose. Sbagliano? No, purtroppo: retrocedere i popoli e i cittadini, ex consumatori ormai inutili, fa parte del piano. Diverranno sudditi, lavoratori-schiavi, senza più diritti sindacali e con salari da Bangladesh, alla periferia meridionale del Quarto Reich. Giulietto Chiesa cita ancora il greco Varoufakis, che bene esprime il panico di Syriza di fronte all’ipotesi Grexit: l’ex ministro, che oggi accusa Tsipras di non aver osato tener duro di fronte all’inaudito “waterboarding” cui è stato sottoposto a Bruxelles, sostenendo che si poteva reggere molto meglio il braccio di ferro e spuntare condizioni migliori per restare nell’Eurozona, cita l’Iraq (paese bombardato, invaso, raso al suolo) come esempio per spiegare le enormi difficoltà nel rimettere in piedi una moneta partendo da zero (missione impossibile, in quel caso, senza l’aiuto Usa). In più, lo stesso Varoufakis evita di citare – come invece fa Krugman – il caso eclatante dell’Argentina, la cui prodigiosa rinascita è iniziata proprio con l’abbandono del legame col dollaro (cambi bloccati, come nel caso dell’euro) tornando pienamente sovrana, “da zero”, dei propri pesos.

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Giulietto Chiesa

 

Se è quindi chiaro che nessun Varoufakis avrebbe mai potuto – con quelle argomentazioni – impensierire neppure lontanamente la Bce e la Commissione Europea (oltre a non aver messo a punto un vero piano-B, il governo di Syriza non ha nemmeno pensato a reclutare un adeguato team di economisti, per esempio quelli, americani e democratici, di cui si servì Nestor Kirchner per la rianimazione-record della sua Argentina), resta di fronte agli occhi di tutti lo spettacolo dell’orrore che Berlino e Bruxelles hanno esibito, a prescindere dall’impresentabilità di Syriza – spettacolo che non mancherà di suscitare ripercussioni drastiche. Scossoni forti, a partire dalla Francia di Marine Le Pen, l’unico leader europeo a chiedere a gran voce, e non da oggi, l’uscita di Parigi dall’Unione Europea. Una prospettiva che ormai sfiora l’Austria, presto alle prese con un referendum, e che nel 2017 chiamerà al voto anche la Gran Bretagna. L’incubo Grexit – espulsione disordinata, non preparata come invece nel caso argentino – comporterebbe «conseguenze sociali e politiche sconvolgenti: sicuramente provocazioni, disperazione, disordini, sangue», scrive Giulietto Chiesa. «Questa è l’Europa, oggi. Bisogna prepararsi a uscirne, per tempo».

tratto da: (clicca qui)

 

 

 

Ieri, mentre ad Ajaccio il ministro dell’interno Bernard Cazeneuve era in visita ufficiale in Corsica, l’FLNC richiamava in un comunicato – autenticato e diffuso a diversi media – “l’importanza capitale” della sua iniziativa del 25 giugno 2014, ovvero la deposizione delle armi. Al tempo stesso il Fronte deplora il comportamento dello Stato francese che persiste nel non prendere atto delle rivendicazioni legittime del popolo còrso, votate democraticamente nella sede dell’Assemblea territoriale.” Nel comunicato si evoca anche la richiesta di amnistia per i prigionieri politici.

Riportiamo di seguito la traduzione dal francese del testo diffuso dal movimento.

F. L. N. C.

Il 25 giugno 2014 la nostra organizzazione , dopo un lungo dibattito, si è presa le proprie responsabilità di fronte all’importanza della posta in gioco, l’avvenire del popolo còrso. Dando prova di una maturità politica esemplare, e prendendo in contropiede qualche bastian contrario, ha preso la decisione unilaterale e inequivocabile di iniziare un processo di portata storica, di smilitarizzazione e di uscita progressiva dalla clandestinità.
Fu una immensa soddisfazione vedere, soprattutto della gioventù còrsa, rispondere con grande interesse al nostro appello alla mobilitazione. Per noi è motivo di orgoglio vedere che coloro che rappresentano il futuro del nostro paese hanno compreso il nostro messaggio. Hanno preso il testimone, e anche se non dubitavamo del loro coraggio né della loro passione, hanno dimostrato le loro capacità e l’efficacia delle proprie azioni al di là delle nostre speranze. Hanno portato la lotta su posizioni avanzate, e ci hanno così confortato nelle nostre convinzioni già forti. Sono garanti preziosi della riuscita della nostra iniziativa.

E coloro che credono, per ignoranza o interesse, che torneremo indietro dalla strada della pace, si sbagliano di grosso. Hanno evidentemenre sottostimato la nostra capacità di analisi e la nostra energia. Finiranno per essere messi da parte dal popolo stesso. Becchini della pace e profittatori della guerra, in silenzio cercano di sabotare la riuscita della nostra iniziativa.
Lo Stato francese da parte sua continua a non prendere in considerazione le rivendicazioni legittime del popolo còrso, votate dall’assemblea territoriale e pertanto deliberate democraticamente. Pensa di poter ingannare a lungo i còrsi organizzando pseudo-riunioni ministeriali che non portano ad alcun atto politico significativo? Nel non voler rispondere alle legittime aspirazioni di un popolo, c’è una precisa volontà politica, oppure semplicemente un’assenza di politica?

Per ora lo Stato francese continua a portare avanti un’assidua politica repressiva e a fare della nostra isola un laboratorio in cui sperimentare pratiche poliziesche, che poco favoriscono l’instaurazione di un clima di pace. Non cederemo alle provocazione, nulla ci distoglierà dal perseguire l’obiettivo di portare avanti il processo che abbiamo iniziato.

Da parte nostra, la determinazione è intatta. Le nostre scelte di ieri sono le stesse di oggi.
Sappiamo che il cammino verso una soluzione politica sarà lungo e difficile, a tratti anche pericoloso, ma gli apprendisti stregoni non dubitino della nostra capacità di mantenere la rotta della pace verso una soluzione politica per la libertà del popolo còrso.

La garanzia della nostra volontà è data dal rispetto totale che abbiamo avuto di quanto deciso un anno fa, la nostra decisione di far tacere le armi. Ciascuno potrà giudicare, giorno dopo giorno, la forza e il carattere irreversibile della nostra scelta della pace per una soluzione politica stabile e negoziata per la Corsica. Anche se il tempo è prezioso.

Sosteniamo le iniziative prese dall’Assemblea di Corsica e garantiamo la nostra determinazione a operate definitivamente e stabilmente per la pace.

In questo senso salutiamo positivamente la richiesta d’amnistia per i prigionieri politici còrsi e della fine degli arresti per motivi politici. Questo tipo di iniziativa arriva a un certo punto nei conflitti armati, in tutto il mondo. Viene promossa da uomini di buona volontà. Non chiediamo niente per noi stessi, ma la legittimità di tale richiesta risulta evidente, ed esamineremo accuratamente la risposta che le sarà data. Verrà il momento in cui saranno giudicati i comportamenti tenuti dagli uni e dagli altri, e una volta di più sarà evidente l’importanza della nostra decisione, presa e portata avanti da oltre un anno.

Infine, per illuminare coloro che in Corsica, in Francia , in Europa o altrove, agitano su di noi la minaccia di obsoleto nazionalismo estremo e chiusura in sé; a questi mondialisti dilaganti, sudditi di un sistema affaristico commeciale, della forza del re denaro, della speculazione finanziaria e delle loro lobby; a quelli che vogliono sottomettere i popoli per farne consumatori docili: noi rispondiamo che essi sono gli eredi e i discepoli della colonizzazione. S’impadronirono delle terre dei popoli, esercitando un dominio feroce e arrogante il cui obiettivo era razziare le risorse naturale impoverendo taluni paesi per arricchirne altri, o impadronirsi di basi logistiche che assicurassero un vantaggio geopolitico, come fu per la Corsica, porta-aerei della Francia nel Mediterraneo. Ieri come oggi la finalità è la stessa: il proprio sviluppo e arricchimento a spese dei popoli, della loro cultura e della loro identità, accrescendo esponenzialmente le ineguaglianze nel mondo. E a chi considera che la nostra terra non ci appartenga, noi rispondiamo, citando un grande capo della resistenza dei nativi americani, che è il popolo còrso che appartiene a questa terra di Corsica.

Che questa invocazione a un popolo martirizzato e decimato non sia la vana speranza allo Stato francese di poter trasformare la Corsica in riserva indiana, una specie di parco divertimenti per turisti con desiderio di esotismo, a un’ora e mezza da Parigi. Perché il nostro popolo è in marcia, e intriso di spirito di resistenza.L’ha imparato dalla Storia, dalle avanzate come dalle ritirate, dai drammi come dalle gioia, dai momenti di sconforto e da quelli di entusiasmo. Il mondo è cambiato, e in questo mondo la Francia non ha più i mezzi per continuare a soffocare le rivendicazioni di emancipazione da parte dei popoli, né nascondendo la testa sotto la sabbia come gli struzzi, ignorando semplicemente il problema còrso. Nella crisi di un sistema imperialista in declino, Paesi come la Francia, vecchie potenze coloniali e neocoloniali, non potranno resistere ancora a lungo al diritto dei popoli a disporre di loro stessi e del proprio destino. Ma invece di venire incontro alle reali richieste dei propri cittadini, spesso i politici si accontentano di piccoli accordi.

L’importanza capitale della nostra iniziativa del 25 giugno 2014 è stata sottolineata dalla quasi totalità degli attori coinvolti e informati della questione còrsa. Sono stati in grado di anticipare e analizzarela portata storica del nostro processo di pace. Ma tutti sappiamo che ciò non è sufficiente. In Corsica, lo Stato francese giustifica il proprio immobilismo endemico, pronto a brandire l’inflessibilità delle istituzioni di una Repubblica incisa nella pietra, che però risultava ben friabile quando si trattava di adattarsi a interessi “superiori” in un sistema di fatto a due velocità, con due pesi e due misure. Dovrebbe essere questo governo francese a tenderci la mano e a rispondere alle rivendicazioni democratiche del popolo còrso?

Diceva De Gaulle, primo presidente della V repubblica francese, che ciò che serve di più per la pace è la comprensione dei popoli, perché i regimi passano, ma i popoli no.

La lotta del nostro popolo non calerà d’intensità. Al contrario, essa continua in un quadro ormai pubblico, popolare e democratico. Restiamo fiduciosi e reiteriamo il nostro appello alla società còrsa perché essa continui a impegnarsi in questo processo, ad unirsi ad esso e a rinforzarlo.

À Populu Fattu Bisogn’à Marchjà

tratto da: (clicca qui)

2015.07.12 – Putin guida la rivolta dei BRICS

Posted by Presidenza on 12 Luglio 2015
Posted in articoli 

Putin ha capito le vulnerabilità dell’impero e sta andando dritto alla sua giugulare. Sta dicendo: ‘Stiamo andando a creare il nostro sistema di debito, stiamo per gestire il nostro sistema, vuol dire che andremo a finanziare i nostri progetti, e stiamo andando a fare tutto nella nostra valuta. BUM!! L’unica cosa che vi resta da fare, è gestirvi il vostro declino economico. Buona giornata ‘.
I BRICS ne hanno avuto abbastanza; abbastanza della guerra, abbastanza di Wall Street, abbastanza di subire ingerenze e ipocrisia e austerità e “lezioni “varie.

 

Pubblicazione1

 

DI MIKE WHITNEY

C’è stato un black-out virtuale di notizie dal settimo vertice annuale dei BRICS quest’anno a Ufa, Russia. Nessuna delle organizzazioni dei media tradizionali sta coprendo le riunioni o fa qualsiasi tentativo di spiegare cosa stia succedendo. Di conseguenza, il popolo americano rimane in gran parte all’oscuro su cosa faccia una potente coalizione di nazioni che stanno mettendo in atto un sistema alternativo che ridurrà di molto l’influenza degli USA nel mondo e porrà fine all’attuale era di dominio della superpotenza.

Andiamo al sodo: i leader dei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) si rendono conto che la sicurezza globale non può essere affidata ad un paese che vede la guerra come solo mezzo accettabile per il raggiungimento dei suoi obiettivi geopolitici. Hanno poi anche compreso che non saranno in grado di raggiungere una stabilità finanziaria laddove è Washington che detta le regole, emette la valuta di fatto “internazionale”e controlla le principali leve del potere finanziario globale. Questo è il motivo per cui i paesi BRICS hanno deciso di tracciare una rotta diversa, tesa a rompere e gradualmente liberarsi dal sistema di Bretton Woods ancora esistente, e di creare un sistema parallelo che meglio serva ai loro interessi. Logicamente, si sono concentrati sui blocchi di fondamenta che sostengono l’attuale sistema a guida USA, cioè le istituzioni da cui gli Stati Uniti derivano il loro straordinario potere; il dollaro, il mercato statunitense del Tesoro, e il FMI. Sostituiti questi, è l’idea, e la nazione indispensabile diventerà solo un altro paese dei tanti che lotta per tirare avanti. Questo è detto su Asia Times:

“I leader dei paesi BRICS …una volta lanciata la nuova Banca di sviluppo, cosa che ha preso tre anni di negoziati per portarla a compimento. Con circa 50 miliardi di dollari di capitale iniziale, la banca dovrebbe iniziare l’emissione di debito per finanziare progetti di infrastrutture dal prossimo anno. Hanno anche lanciato un fondo di valuta di cambio di $ 100 miliardi.

Queste due nuove imprese suonano come dichiarazioni che i cinque maggiori mercati emergenti sono sia alla ricerca l’uno dell’altro e, allo stesso tempo, che stanno allontanandosi dalle istituzioni finanziarie occidentali della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale.

“Gli stati BRICS intendono utilizzare attivamente le proprie risorse e le risorse interne per lo sviluppo”, ha detto Putin, citato dalla Reuters. “La nuova Banca d’investimenti aiuterà congiunte operazioni di finanza, progetti su larga scala nelle infrastrutture dei trasporti e dell’energia, e lo sviluppo industriale.” … ..Il far nascere queste due iniziative in Russia è stata sempre priorità di Putin.

Titolo di Asia Times:”Il Russo Putin guadagna punti ad Ufa con i BRICS” (“Russia’s Putin scores points at Ufa BRICS summit“, Asia Times)

Riesci a vedere cosa sta succedendo? Putin ha capito le vulnerabilità dell’impero e sta andando dritto alla sua giugulare. Sta dicendo: ‘Stiamo andando a creare il nostro sistema di debito, stiamo per gestire il nostro sistema, vuol dire che andremo a finanziare i nostri progetti, e stiamo andando a fare tutto nella nostra valuta. BUM!! L’unica cosa che vi resta da fare, è gestirvi il vostro declino economico. Buona giornata ‘. Non è questo il succo di quello che sta dicendo?

Così si può vedere, caro lettore, perché niente di tutto questo compaia sulle pagine dei giornali degli Stati Uniti o in televisione. Washington avrebbe preferito che non sappia come hanno pasticciato tutto alienandoci i paesi in più rapida crescita nel mondo.

La conferenza di Ufa è un momento di svolta. Mentre il Pentagono sta rapidamente spostando truppe e materiali militari ai confini della Russia, e uno dopo l’altro il parruccone di turno si mette a blaterare circa la “minaccia russa”; i paesi BRICS si sono spostati fuori dall’orbita di Washington del tutto. Stanno seguendo la guida di uomini che, francamente, agiscono esattamente come i leader degli Stati Uniti hanno agito quando gli Stati Uniti erano in crescita. Questi sono ragazzi che “pensano in grande”; che vogliono collegare interi continenti con treni ad alta velocità, alzare il tenore di vita a tutti i livelli, e si trasformano in dinamo di sviluppo produttivo. Cosa si sognano intanto i leader americani: la guerra coi droni? Il pareggio di Bilancio ? Vietare la bandiera confederata?

È roba da ridere. Nessuno a Washington ha un piano per il futuro. È tutto solo opportunismo politico e sforzo per tenere una qualche compostezza. Vedete poi questo da The Hindu:

“Cina e Russia hanno descritto i BRICS come pure l’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (SCO) e l’Unione Economica Eurasiatica (EAEU) come il nucleo di un nuovo ordine internazionale …”

Il presidente russo Vladimir Putin ha detto … “Non c’è dubbio – abbiamo tutte le necessarie premesse per ampliare gli orizzonti della cooperazione reciprocamente vantaggiosa, per unire insieme le nostre risorse di materie prime, il capitale umano e degli enormi mercati di consumo per un potente balzo avanti economico.”

La Tass, agenzia Russa ha ancora citato Putin dicendo che il continente eurasiatico ha un vasto potenziale di transito. Indicò “la costruzione di nuove catene di trasporto e logistica efficienti, in particolare, l’attuazione dell’iniziativa della cintura economica detta Via della Seta e lo sviluppo del trasporto nella parte orientale della Russia e della Siberia. Questo può collegare i mercati in rapida crescita nelle economie dell’Asia e dell’Europa, maturi, ricchi di successi industriali e tecnologici. Allo stesso tempo, questo permetterà ai nostri paesi di diventare più commercialmente redditizi nella competizione per gli investitori, per la creazione di nuovi posti di lavoro, per le imprese avanzate “, ha osservato.” ….

Il vertice ha inoltre riconosciuto “il potenziale per espandere l’uso delle nostre monete nazionali nelle transazioni tra i paesi BRICS.” (“BRICS, SCO, EAEU può definire nuovo ordine mondiale: Cina, Russia”, The Hindu) (“BRICS, SCO, EAEU can define new world order: China, Russia“, The Hindu)

Il dollaro è fritto. Il FMI è fritto. Il mercato del debito degli Stati Uniti (US Treasuries) è fritto. Le istituzioni che sostengono il potere degli Stati Uniti si stanno sgretolando sotto i nostri occhi. I BRICS ne hanno avuto abbastanza; abbastanza della guerra, abbastanza di Wall Street, abbastanza di subire ingerenze e ipocrisia e austerità e “lezioni “varie. Questo è l’addio. Certo, ci vorrà del tempo, ma Ufa segna un cambiamento fondamentale nel modo di pensare, un cambiamento fondamentale nell’approccio, e un cambiamento fondamenta le di orientamento strategico.

I paesi BRICS non stanno tornando, se ne sono andati per sempre, proprio come “il fulcro d’ Asia” di Washington è andato per sempre. C’è solo troppa resistenza a noi. Washington ha semplicemente calcato troppo la mano, logorato il suo prestigio.
La gente è stanca di noi. Forse che si può biasimarli?

MIKE WHITNEY vive nello stato di Washington. E’ collaboratore di Hopeless: Barack Obama e la politica della Illusione (AK Press). Hopeless è disponibile anche in edizione Kindle. Può essere raggiunto a fergiewhitney@msn.com

tratto da: (clicca qui)

Pubblicazione1

 

Il primo progetto dovrebbe essere finanziato alla fine di quest’anno o all’inizio del         prossimo anno

 

La tanto annunciata Nuova Banca di Sviluppo (NDB) o Banca dei BRICS è ufficialmente operativa da ieri, 7 luglio, con la prima riunione del suo consiglio di amministrazione a Mosca.

La NDB, con circa 50 miliardi di dollari di capitale da investire in infrastrutture pubbliche, si presenta come una istituzione alternativa alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale.

La nuova banca fornirà fondi per progetti infrastrutturali e di sviluppo nei paesi BRICS. Ogni nazione avrà pari voce nella gestione della banca, indipendentemente dalle dimensioni del PIL.

Una Banca dei BRICS – alternativa al FMI per consentire alle nazioni di essere sempre meno dipendenti dalla moneta di riserva mondiale – era stata originariamente discussa al vertice BRICS nel 2012. Al Vertice del 2014 il quadro di riferimento per la Banca BRICS è stato approvato come “un sistema di misure che aiuti a prevenire molestie nei confronti di paesi che non sono d’accordo con le decisioni di politica estera da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati”.

Nel corso del VI summit dei Paesi BRICS a Fortaleza, in Brasile, i capi di stato e di governo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica hanno annunciato la creazione della Banca BRICS, articolata nella New Development Bank(o NDB) e in un fondo di riserva monetaria chiamato Accordo sui Fondi di Riserva (Contingent Reserve Arrangement, CRA). De facto, i BRICS prendono le distanze dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca Mondiale, istituzioni nate 70 anni fa nell’orbita del dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America.

Il consiglio di amministrazione ha nominato i membri del consiglio di amministrazione, guidato dal presidente Kundapur Vaman Kamath, e ha anche discusso norme in materia di procedure e strategia di sviluppo quinquennale della banca.

La banca avrà lo scopo di “promuovere la riforma della governance economica globale”, aveva dichiarato in precedenza il ministro delle Finanze cinese, Lou Jiwei.

La NDB dovrebbe lanciare il primo progetto alla fine di quest’anno o all’inizio del prossimo anno.

La banca ha un capitale iniziale autorizzato di 100 miliardi. Il suo capitale sottoscritto iniziale di 50 miliardi di dollari verrà equamente ripartito tra i soci fondatori.

Come concordato dai cinque paesi, il primo presidente del consiglio di amministrazione è stato nominato dalla Russia, il primo presidente del consiglio di amministrazione da parte del Brasile, e il primo presidente da parte dell’India.

Un centro regionale africano della banca avrà sede a Johannesburg, Sudafrica.

I governatori delle banche centrali dei Paesi del blocco BRICS hanno firmato, ieri, anche un accordo operativo che disciplina il funzionamento del pool di riserve in valuta degli Stati membri. L’importo della riserva è stato stabilito a 100 miliardi di dollati, riporta la Banca centrale della Russia in un comunicato.

L’obiettivo di questo fondo comune sarà concedere prestiti ai paesi partecipanti in caso di problemi di liquidità in dollari. La creazione del fondo è stata decisa un anno fa, 15 luglio 2014, in occasione del vertice dei BRICS a Fortaleza (Brasile).

Il fondo di riserva monetaria chiamato Accordo sui Fondi di Riserva (Contingent Reserve Arrangement, CRA) entrerà in vigore il 30 luglio, ha detto dopo l’incontro a Mosca il Capo della Banca centrale russa Elvira Nabiullina

tratto da: (clicca qui)

Il popolo greco si è espresso ed è stato un verdetto esplosivo. La maggior parte della popolazione ha dimostrato che non ha più voglia di lasciarsi prendere per i fondelli, è stato un voto che segnerà la storia e darà ad altri popoli il coraggio di ribellarsi alla dittatura dei banchieri.
Alexis Tsipras ha dichiarato che con il voto di ieri la Democrazia ha battuto la paura …..ed è esattamente quanto sostengo da anni.

LA LORO FORZA E’ LA NOSTRA PAURA

Sergio PES (Presidente MLNS e GSP)

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di Marcello Foa
Quando circa il 60% di un popolo vota no, sono superflue le solite interpretazioni. E’ un voto forte, conclamato e, a mio giudizio, colmo di speranza. Ma non del tutto sorprendente. Il popolo greco – che molti in questi anni hanno deriso – è un popolo coriaceo, orgoglioso, profondamente consapevole della propria identità. E’ un popolo che ha resistito a secoli di dominazione ottomana, che nella Seconda Guerra Mondiale ha combattuto a viso aperto gli italiani prima (sconfiggendoli) e i tedeschi di Hitler. Quando si sente minacciato, quando si sente vittima di un’ingiustizia reagisce come ha sempre fatto nella sua storia: unendosi e ribellandosi. Il no dei greci è straordinario perché segna un precedente storico. Un popolo di nemmeno 10 milioni di abitanti ha avuto il coraggio di sfidare apertamente l’Europa finanziaria – dominata dall’Unione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fmi – che ha gettato nella disperazione non solo i greci, ma anche portoghesi, spagnoli, italiani e in fondo quasi tutti i paesi della zona euro, con la sola eccezione della Germania. E lo ha fatto usando lo strumento che quell’Europa di tecnocrati nega ostinatamente e svilisce quotidianamente: la democrazia.

Pubblicazione1

 

La gioia dei greci alla vittoria del No al referendum

 

Il voto di un popolo che vuole essere ancora sovrano in questa Europa che invece nega la sovranità. E’ uno schiaffo clamoroso, che nemmeno uno spin vergognoso, dai tratti terroristici – perpetrato da tutte le istituzioni europee con la vergognosa complicità di Draghi, che ha portato ai minimi la liquidità alla Grecia, costringendo le banche, in piena campagna referendaria, a rimanere chiuse – ha sortito gli effetti sperati. Altrove queste misure avrebbero provocato una netta vittoria dei sì. In Grecia, invece, è stata vissuta come un gesto imperiale, di occupazione coloniale a cui non si poteva che rispondere con il no. Della serie: noi non ci facciamo intimidire. Che tempra! Che coraggio! Onore al popolo greco. E che esempio per gli altri europei. Il voto di ieri è in ogni caso storico e incoraggia altri popoli a seguire la stessa strada. Da questa mattina sono più forti tutti i movimenti popolari di protesta di tutto il Continente, sia di sinistra che di destra, in Spagna, in Italia, in Francia, in Gran Bretagna. E’ una scossa tellurica che l’Europa dei tecnocrati non potrà ignorare.
E questo è l’aspetto più critico e interessante del dopo voto ellenico. Un voto che costringe l’Unione Europea a gettare la maschera, a mostrarsi per quel che è davvero. Infatti, se cede alle richieste di Tsipras e rinegozia il debito, attuando politiche che non siano più solo punitive ma finalmente di stimolo alla crescita economica, rinnega 15 anni di inutile, cieca, prevaricante austerity. Se invece persegue la linea seguita finora, la conseguenza ultima sarà, verosimilmente, da qui a qualche mese il default e il fallimento de facto della Grecia, che si tradurrà in un’uscita di Atene dall’euro con il ritorno alla dracma. Ma se così fosse sarebbe comunque una sconfitta per l’Europa, perché il tabù dell’uscita dalla moneta unica verrebbe infranto, costituendo un precedente dalle conseguenze imprevedibili.

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Marcello Foa

 

Il terzo scenario è quello di un ulteriore, immediato gesto imperiale di Draghi e della Bce, con la chiusura immediata dei rubinetti finanziari alla Grecia, che comporterebbe il fallimento delle banche e uno tsunami sociale. Un gesto di cui verosimilmente Draghi e i suoi referenti dell’elité finanziaria nonché la Germania, sarebbero fieri, ritenendolo l’inevitabile conseguenza della volontà del popolo greco e risponderebbe alle logiche intimidatorie e punitive di chi vuol dimostrare che non esiste salvezza al di fuori di questa Europa – insomma, per dissuadere gli altri popoli dal seguire l’esempio greco. Ma in questo caso mostrerebbe una vocazione totalitaria. Comunque vada, l’Europa finanziaria, basta su criteri assurdi e prevaricatori, oggi ha perso. Come non essere contenti?

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Putin: «Solo una persona non sana di mente, o in sogno, può immaginare che la Russia possa un giorno attaccare la Nato. Sostenere quest’idea non ha senso, è del tutto infondata. Oggi le persone ragionevoli non possono immaginare un conflitto militare su scala così vasta. Noi abbiamo altre cose da fare, ve lo posso assicurare».

Queste sono parole di un leader che non cerca guai.

 

Quella dell’11 Settembre non è stata certo la prima volta in cui la nazione americana s’è vista trascinare in guerra da un incidente particolarmente ambiguo. La Costituzione americana non permette agli Stati Uniti di dare inizio a una qualunque guerra di aggressione, e riserva al solo Parlamento il potere di dichiarare guerra ad un’altra nazione, in caso diventi necessario difendersi. Per questo motivo, ogni volta che un presidente americano ha voluto prendere parte a qualche guerra, o iniziarne una nuova, ha dovuto servirsi di un incidente militare, creato o provocato per giustificare in qualche modo l’intervento armato di fronte al Parlamento e alla popolazione. Nel 1898, gli Stati Uniti fecero guerra alla Spagna per sottrarle il controllo di Cuba, indispensabile per il controllo dell’intero Golfo del Messico. Il pretesto di guerra venne dall’affondamento della nave militare “Maine” ancorata al largo di Cuba, di cui furono subito incolpati gli spagnoli, nonostante questi si dichiarassero del tutto estranei al fatto.

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L’affondamento del Lusitania

 

Le immagini della nave semi-affondata e quelle dei funerali dei marinai furono fatte passare nei primi cinegiornali dell’epoca, generando nel paese uno stato di indignazione sufficiente a poter scatenare una guerra, che nel frattempo il futuro presidente Roosevelt, allora ministro della marina, aveva preparato fin nel minimo dettaglio. Solo nel 1980, quasi un secolo dopo, gli americani avrebbero riconosciuto che gli spagnoli non erano responsabili dell’attacco, dicendo però – per non autoaccusarsi – che il “Maine” era affondato perché alcuni esplosivi erano stati stipati troppo vicini alle caldaie. Nel frattempo, l’intera armata spagnola era stata distrutta, e così gli americani diventavano la nuova potenza marittima mondiale, con postazioni strategiche che andavano dai Caraibi sino alle Filippine. Nel 1915, fu l’affondamento del “Lusitania”, da parte di un sottomarino tedesco, a dare inizio alla crisi tra Stati Uniti e Germania, che permise ai primi di entrare nel conflitto mondiale.
Pare che gli americani abbiano fatto sapere di nascosto ai tedeschi che sul “Lusitania” viaggiava un importante carico di armamenti destinato all’Inghilterra. In questo modo, sarebbero riusciti a provocare l’attacco da parte del sottomarino tedesco che affondò la nave, sulla quale viaggiava anche un centinaio di cittadini americani. Nel 1941, fu il noto attacco a Pearl Harbor a scatenare nella popolazione americana quell’ondata di indignazione che permise a Roosevelt di entrare con decisione nella Seconda Guerra Mondiale, contro Giappone, Italia e Germania. Circa 3.000 marinai furono massacrati in un attacco a sorpresa, del quale si sarebbe saputo in seguito che gli americani erano invece al corrente già da molte ore. Ma in quell’occasione fu fatto di tutto perché queste informazioni non arrivassero in tempo al comando del porto, come ha poi confermato l’ammiraglio Kimmel, che aveva assistito impotente al massacro dei suoi uomini e alla distruzione delle sue navi: «Avevamo bisogno di una cosa, che i nostri mezzi non sono stati in grado di farci avere: di vitale importanza erano le informazioni disponibili a Washington, i messaggi intercettati che dicevano dove e quando il Giappone avrebbe probabilmente attaccato. Io non ho ricevuto queste informazioni».

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Robert McNamara

 

Nel 1964, gli Stati Uniti decidevano di entrare ufficialmente in guerra con il Vietnam del Nord, dopo aver aiutato militarmente per molti anni il Vietnam del Sud, senza mai intervenire direttamente. Il pretesto di guerra venne dal cosiddetto “Incidente del Golfo del Tonchino”, in cui delle motovedette vietnamite furono accusate di aver lanciato siluri contro l’incrociatore americano “Maddox”. Fu il ministro degli esteri, Robert McNamara, a dare alla stampa la notizia della pronta reazione americana all’attacco vietnamita: «Subito dopo l’attacco, rappresentanti americani a Saigon si sono incontrati con rappresentanti del governo sud-vietnamita, e insieme hanno concordato che un’azione punitiva congiunta era necessaria». Ma lo stesso McNamara, 40 anni dopo, avrebbe confessato che l’attacco delle motovedette era stato tutta un’invenzione per creare, appunto, il necessario pretesto per entrare in guerra: «Eventi successivi hanno mostrato che la nostra impressione di esser stati attaccati quel giorno era sbagliata: non era successo». Nel frattempo, erano morti quasi 60.000 soldati americani ed oltre 3 milioni di civili vietnamiti.
Nel 1990, la situazione fra gli Stati Uniti e l’Iraq di Saddam Hussein si era fatta tesa, e la squadra di neo-conservatori vicini al presidente Bush convinse quest’ultimo ad un intervento armato contro il dittatore iracheno. Gli americani fecero allora sapere a Saddam che non avevano nulla in contrario se si fosse impadronito dei campi petroliferi del Kuwait, un territorio che da sempre l’Iraq reclamava come proprio. La trappola funzionò. E Saddam invase in Kuwait. Subito dopo, Dick Cheney (che in quel periodo era ministro della difesa) fece avere all’Arabia Saudita delle foto satellitari nelle quali si vedevano 250.000 soldati di Saddam ammassati verso il confine del loro paese. Temendo un’invasione imminente, i saduti concessero agli americani il permesso straordinario di stabilire delle basi militari sul loro territorio, mettendoli così in grado di attaccare comodamente l’Iraq. Contemporaneamente, partiva una massiccia campagna mediatica contro Saddam, che veniva accusato di aver usato contro i suoi connazionali curdi delle armi chimiche, che gli stessi americani gli avevano venduto, per poi coprire con il loro silenzio il genocidio in corso, pur essendone perfettamente al corrente.

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Dick Cheney

 

La campagna mediatica contro il dittatore iracheno culminava con la toccante testimonianza di una giovane infermiera kuwaitiana, che descriveva al mondo le atrocità commesse dai soldati di Saddam negli ospedali del suo paese invaso: «Mentre ero là ho visto i soldati iracheni entrare nell’ospedale armati di mitra, hanno tolto i neonati dalle incubatrici, hanno portato via le incubatrici e hanno lasciato i bimbi a morire sul pavimento freddo». La notizia fece il giro del mondo, e da quel momento nessuno ebbe da ridire sui bombardamenti americani in Iraq. Qualche anno dopo, alcuni giornalisti vennero in possesso di foto satellitari che stano state scattate dai russi sulla stessa zona di deserto e proprio negli stessi giorni. «La cosa più importante era quello che non mostravano. Ti saresti aspettato di vedere dei carri armati lungo il confine, ma non ce n’era nemmeno uno. E non c’era niente, alle spalle della frontiera, che potesse rifornire quella quantità di carri armati e soldati».
Le stesse immagini che mostravano distintamente i carri armati iracheni al centro di Kuwait City rivelavano anche che lungo la frontiera con l’Arabia Saudita non c’era assolutamente nulla: non un mezzo, non un uomo, non un carro armato. Anche l’infermiera che aveva commosso il mondo si rivelò essere la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington, che aveva recitato ad arte la scena delle incubatrici (del tutto inventata), dopo esser stata allenata professionalmente da una delle più note società di pubbliche relazioni di Washington, la “Hill & Knowlton”. Nel frattempo, gli americani ne avevano approfittato per piazzare delle basi permanenti in Arabia Saudita e per sterminare l’intero esercito iracheno. In uno spietato e vile tiro al bersaglio, in piena violazione di tutti i trattati di guerra mai esistiti, migliaia di soldati iracheni furono massacrati e letteralmente inceneriti dall’aviazione americana, mentre si trovavano del tutto scoperti e impossibilitati a fuggire, sulla via del ritorno verso Baghdad.

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Foa: ha ragione Putin, sono gli Usa a minacciare la Russia

di Marcello Foa

Nelle relazioni internazionali bisogna saper cogliere innanzitutto il quadro generale; solo avendo ben presente la visione strategica dei paesi coinvolti è possibile analizzare il dettaglio ovvero i singoli episodi. Riguardo alla Russia le mie idee sono da tempo piuttosto chiare. Premessa: mi sono recato a Mosca regolarmente per 18 anni, dal 1990 al 2008, in qualità di inviato speciale. Ho seguito in prima persona le fasi cruciali di questo paese, dal crollo dell’Unione sovietica alla crisi finanziaria della fine degli anni Novanta, dall’ascesa di Putin al periodo di Medvedev, inclusi i drammi di Beslan e del teatro Dubrovka. In questi 18 anni non ho mai dovuto coprire una sola crisi internazionale provocata dal Cremlino. In questi 18 anni ho assistito al progressivo, sovente passivo ridimensionamento di Mosca nello scenario geostrategico a cui è corrisposto, a partire dal Duemila, lo sviluppo di una nuova Russia che, sfruttando il boom dei prezzi petroliferi e delle materie prime, desiderava solo una cosa: continuare ad arricchirsi.
Era una Russia che, in politica estera, chiedeva agli americani solo di essere rispettata nel cortile ci casa ovvero in quel che restava delle proprie zone di influenza, come l’Ucraina e alcune Repubbliche asiatiche. Mai imperiale, mai militaresca. Non cercava guai e continuo a pensarlo oggi. Della bella intervista rilasciata al neodirettore del “Corriere della Sera” Luciano Fontana e a Paolo Valentino, vale la pena di rileggere soprattutto due passaggi. Domanda del “Corriere”: «Parlando di pace, signor presidente, i paesi dell’ex Patto di Varsavia che oggi sono membri della Nato, come i baltici e la Polonia, si sentono minacciati dalla Russia. L’Alleanza ha deciso di creare una forza dissuasiva di pronto intervento per venire incontro a queste preoccupazioni. Ha ragione l’Occidente a temere di nuovo l’“orso russo”? E perché la Russia assume toni così conflittuali?». Risposta di Putin: «La Russia non parla in tono conflittuale con nessuno e, in queste questioni, come diceva Otto von Bismarck, “non sono importanti i discorsi, ma il potenziale”. Cosa dicono i potenziali reali? Le spese militari degli Stati Uniti sono superiori alle spese militari di tutti i paesi del mondo messi insieme. Quelle complessive della Nato sono 10 volte superiori a quelle della Federazione Russa. La Russia praticamente non ha più basi militari all’estero».
«La nostra politica non ha un carattere globale, offensivo o aggressivo. Pubblicate sul vostro giornale la mappa del mondo, indicando tutte le basi militari americane e vedrete la differenza. Le faccio degli esempi. A volte mi fanno osservare che i nostri aerei volano fin sopra l’Oceano Atlantico. Il pattugliamento con aerei strategici di zone lontane lo facevano solamente l’Urss e gli Usa all’epoca della “guerra fredda”. Ma la nuova Russia, all’inizio degli anni Novanta, lo ha abolito, mentre i nostri amici americani hanno continuato a volare lungo i nostri confini. Per quale ragione? Così alcuni anni fa abbiamo ripristinato questi sorvoli: ci siamo comportati aggressivamente? Vicino alle coste della Norvegia ci sono i sommergibili americani in servizio permanente. Il tempo che ci mette un missile a raggiungere Mosca da questi sottomarini è di 17 minuti. E volete dire che ci comportiamo in modo aggressivo? Lei ha menzionato l’allargamento della Nato a Est. Ma noi non ci muoviamo da nessuna parte, è l’infrastruttura della Nato che si avvicina alle nostre frontiere. E’ la dimostrazione della nostra aggressività?».
Domanda del “Corriere”: «Nega le minacce alla Nato?». Risposta di Putin: «Solo una persona non sana di mente, o in sogno, può immaginare che la Russia possa un giorno attaccare la Nato. Sostenere quest’idea non ha senso, è del tutto infondata. Forse qualcuno può essere interessato ad alimentare queste paure. Io posso solo supporlo. Ad esempio gli americani non vogliono tanto il ravvicinamento tra la Russia e l’Europa. Non lo affermo, lo dico solo come ipotesi. Supponiamo che gli Usa vogliano mantenere la propria leadership nella comunità atlantica. Hanno bisogno di una minaccia esterna, di un nemico per garantirla. E l’Iran chiaramente non è una minaccia in grado di intimidire abbastanza. Con chi mettere paura? Improvvisamente sopraggiunge la crisi ucraina. La Russia è costretta a reagire. Forse tutto è fatto apposta, non lo so. Ma non siamo noi a farlo. Voglio dirvi: non bisogna aver paura della Russia. Il mondo è talmente cambiato, che oggi le persone ragionevoli non possono immaginare un conflitto militare su scala così vasta. Noi abbiamo altre cose da fare, ve lo posso assicurare».

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Marcello Foa

 

Queste sono parole di un leader che non cerca guai. E’ evidente che Putin non aspetti altro che di poter chiudere la crisi con l’America e di poter tornare ad essere considerato come un partner economico sulla scena globale. Non esiste una nuova Russia imperiale, resta una Russia che chiede solo di essere riammessa nella comunità internazionale e di poter partecipare, di nuovo, al G8. Trovare un accordo sull’Ucraina non è difficile, ma bisogna volerlo. E questo è il problema. E’ significativo che sull’edizione di ieri del “Corriere”, persino un atlantista di ferro come l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di fatto abbia certificato la buona fede di Mosca, rilevando come Putin gli avesse formulato il suo pensiero già nel 2013, pensiero che lo stesso Napolitano trasmise a Obama. Inutilmente. Chi ragiona con onestà intellettuale dovrebbe chiedersi piuttosto quali siano gli obiettivi geostrategici che gli Usa stanno surretiziamente e a mio giudizio pericolosamente perseguendo. E perché Obama abbia deciso di rispondere alla mano tesa Putin minacciando nuove sanzioni economiche e un’escalation missilistica nell’Europa dell’Est. Non è così che si mette in sicurezza il mondo.

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