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Grande iniziativa di “Acadèmia de su Sardu onlus” !

Sosteniamo il progetto scaricando il modulo, compilandolo e presentandolo alla scuola dei nostri figli i quali hanno il DIRITTO di conoscere la loro vera lingua e non quella che lo Stato colonizzatore italiano ci ha imposto.

È uno dei passi che dobbiamo necessariamente compiere per combattere il genocidio che sta subendo il nostro popolo.

La genetica della popolazione sarda aiuta a capire molto dell’origine di tante malattie.
E anche della storia delle popolazioni europee, come una vera macchina del tempo

Un’isola straordinaria, in tutti i sensi. La Sardegna è un luogo davvero unico, non solo per il paesaggio: gli abitanti sono una delle popolazioni più speciali d’Europa, perché hanno un Dna pieno di sorprese che potrebbe addirittura aiutarci a capire perché ci ammaliamo di sclerosi multipla, diabete e così via. Lo ha spiegato Francesco Cucca, direttore dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irgb) e docente di Genetica Medica dell’Università di Sassari, durante il Festival della Scienza Medica di Bologna, raccontando anche come i sardi di oggi siano fra i popoli più “primitivi” d’Europa perché hanno un genoma rimasto pressoché intatto nelle ultime decine di migliaia di anni.

 Dna dal passato

Leggere il genoma di un sardo infatti è come salire su una macchina del tempo che ci riporti fino al neolitico, spiega Cucca: «Il Dna dei sardi è una specie di orologio molecolare che ci ha aiutato, per esempio, a datare la comparsa dell’uomo moderno fissando la sua origine duecentomila anni fa, ovvero centomila anni prima di quando si pensava fino a poco tempo fa. Abbiamo anche potuto datare l’arrivo sull’isola di popolazioni dall’Africa subsahariana, circa duemila anni fa al tempo della dominazione romana». Leggere il genoma dei sardi è insomma come sfogliare le pagine di un libro di storia, ma soprattutto come dare un’occhiata all’aspetto e alle caratteristiche degli uomini della preistoria perché l’isola, a parte pochi sporadici “ingressi”, è rimasta isolata e non ha subito invasioni come, per esempio, la Sicilia. «Il profilo genetico è rimasto immutato dal neolitico fino alle civiltà nuragiche e oltre, è quello delle popolazioni europee primitive», spiega Cucca.

 Una finestra sulle malattie

Tutto questo è interessante dal punto di vista antropologico, ma anche medico: i numerosi progetti di sequenziamento genetico di popolazioni isolate nella Sardegna, isole nell’isola, stanno dando informazioni importanti per capire per esempio le caratteristiche e lo sviluppo di alcune malattie autoimmuni come il diabete di tipo 1 o la sclerosi multipla, entrambe molto più diffuse fra i sardi rispetto al resto della popolazione. Sottolinea Cucca: «La frequenza di queste malattie in Sardegna è la più alta al mondo, studiare il Dna dei sardi può aiutarci a capire perché e anche a trovare bersagli molecolari nuovi. Abbiamo visto, per esempio, che un gene conservato nel Dna dei sardi si associa all’incremento di malattie su base autoimmune come la sclerosi multipla: è lo stesso che nel topolino porta a una maggior resistenza alla malaria, per cui è possibile che nell’isola si sia mantenuto perché conferiva una protezione utile da questa malattia. In passato, quindi, favoriva la sopravvivenza ma oggi è un “fardello” che aumenta il rischio di malattie autoimmuni; averlo scoperto significa poter lavorare su un nuovo bersaglio terapeutico».

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Zelenskij non è a conoscenza delle norme del diritto internazionale che disciplinano la concessione della cittadinanza

Il 24 aprile, il Presidente della Federazione Russa [Putin] ha firmato un decreto “Sulla definizione per scopi umanitari delle categorie di persone che hanno il diritto di chiedere l’ammissione alla cittadinanza russa secondo una procedura semplificata”. Secondo questo decreto, i cittadini ucraini che risiedono permanentemente nei territori di determinati distretti delle regioni di Donetsk e Lugansk hanno il diritto di acquisire la cittadinanza della Federazione Russa senza adempiere a determinate condizioni e in tempi più rapidi.

In Occidente si sta cercando di presentare questa decisione come d’emergenza, straordinaria, ma tali azioni sono state a lungo previste dal diritto sia internazionale che russo. In particolare, tale procedura è stata per molti anni prevista dalla legge sulla cittadinanza della Federazione Russa del 2002. La parte 8 dell’articolo 14 di questa legge stabilisce che i cittadini stranieri hanno il diritto di chiedere l’ammissione alla cittadinanza della Federazione Russa in modo semplificato, se rientrano in categorie definite dal Presidente della Federazione Russa. Tali categorie sono definite dal decreto di V.V. Putin del 24 aprile 2019.

La procedura semplificata per ottenere la cittadinanza russa non implica la concessione automatica della cittadinanza, ma esenta i richiedenti dalla presentazione di determinati documenti e dall’adempimento di requisiti aggiuntivi. La procedura semplificata per la concessione della cittadinanza della Federazione Russa prevede anche l’esame delle domande di ammissione alla cittadinanza in un periodo non superiore a tre mesi e l’entrata in vigore della relativa decisione dalla data della sua adozione.

Mettiamo subito una cosa in chiaro: questa decisione non è stata adottata, ma solo annunciata il 24 aprile. Anche se alcuni media hanno affermato che Mosca avrebbe preso la decisione in connessione alla vittoria di Zelenskij alle elezioni, la decisione è stata presa già da tempo. Non è stata annunciata solo allo scopo di non influenzare le elezioni ucraine.

Il decreto presidenziale del 24 aprile dovrebbe essere considerato sia nel contesto della prassi a livello mondiale, sia nel contesto degli eventi accaduti dal 2014, quando un gran numero di cittadini ucraini (principalmente del Donbass) sono stati costretti a lasciare il loro Paese. Dall’aprile 2014 all’aprile 2019, solo dal Sud-Est dell’Ucraina 925mila cittadini ucraini sono entrati e sono rimasti nel territorio della Federazione Russa. In totale, sono 2,3 milioni i cittadini dell’Ucraina nel territorio della Federazione Russa. Durante questo periodo, 334 mila cittadini ucraini hanno chiesto alle autorità di concedere la cittadinanza russa.

Il decreto del Presidente della Russia del 24 aprile ha causato una reazione nervosa. La Germania, approfittando della sua presidenza nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha inserito all’ordine del giorno di una riunione d’emergenza la questione dei “passaporti russi”. Il Presidente del Consiglio ha il diritto di convocare una riunione non programmata, in caso di aggressione o altro atto di violazione della pace o di minaccia della pace. Tuttavia, in questa sede i “partner” occidentali hanno fatto semplicemente uso dei loro pieni poteri per gonfiare la “minaccia russa”. Non avevano nulla da dire alla riunione convocata del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Sbraitavano a riguardo della violazione del diritto internazionale, degli Accordi di Minsk, persino della violazione della legge russa, ma tacevano silenziosamente su quali norme di quel particolare documento erano state violate in modo concreto.

In primo luogo, il diritto internazionale vigente stabilisce chiaramente, da una parte il diritto di uno Stato di decidere in merito alla regolamentazione della concessione della cittadinanza e, dall’altra, il desiderio delle persone interessate. Pertanto, l’articolo 2 della Convenzione Europea sulla cittadinanza del 1997 stabilisce chiaramente che ogni Stato ha il diritto di determinare nella propria legislazione chi sono i suoi cittadini. Nel preambolo della stessa convenzione si afferma che, sebbene gli Stati abbiano opinioni diverse sulla questione della pluralità della cittadinanza, ad essi è riconosciuto il diritto di decidere liberamente quali conseguenze derivano nel proprio diritto interno, per il fatto che un proprio cittadino acquisisce o possiede un’altra cittadinanza, e appartiene anche allo Stato stesso. La stessa convenzione afferma che in materia di cittadinanza devono essere presi in considerazione gli interessi legittimi di entrambi gli Stati e degli individui. Infine, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo sancisce il diritto di ogni persona a cambiare la propria cittadinanza.

In secondo luogo, la legislazione russa, come è già stato detto, prevede espressamente la possibilità di concedere una procedura semplificata per ottenere la cittadinanza.

In terzo luogo, nessuno, a quanto pare, non ha letto da molto tempo il testo degli Accordi di Minsk. Non un solo punto degli accordi concordati a Minsk non è violato dal decreto presidenziale. I rappresentanti ucraini presso l’ONU hanno dimostrato ancora una volta chi viola davvero questi accordi. Pertanto, il paragrafo 7 prevede l’accesso sicuro, la consegna, lo stoccaggio e la distribuzione dell’assistenza umanitaria a chi ne ha bisogno attraverso un meccanismo internazionale. Il paragrafo 8 include una misura che definisce le modalità del pieno ripristino delle relazioni sociali ed economiche, compresi i trasferimenti sociali, come il pagamento delle pensioni e altri pagamenti (depositi e redditi, pagamento puntuale di tutte le bollette, riscossione delle tasse all’interno del quadro giuridico dell’Ucraina). A tal fine, l’Ucraina ha dovuto riprendere il controllo di un segmento del suo sistema bancario nelle aree colpite dal conflitto; è prevista anche la possibilità della creazione di un meccanismo internazionale per facilitare i trasferimenti di denaro.

Le autorità di Kiev non solo non hanno adempiuto a una di queste condizioni, ma hanno anche aggravato la situazione. Le azioni militari contro la popolazione del loro Paese e il blocco del Donbass hanno costretto le persone a fuggire, e i restanti si sono trovati in condizioni che, tra l’altro, sono uno dei motivi legali per la qualifica di genocidio – “creazione delle condizioni destinate alla distruzione totale o parziale della popolazione”. È anche noto che queste condizioni sono state create intenzionalmente: le autorità ucraine hanno direttamente minacciato la popolazione del Donbass, accentuando le sofferenze che saranno inflitte ai bambini.

Nel suo discorso durante una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, V. Nebenzja(n.d.T. diplomatico russo e l’attuale rappresentante permanente della Russia presso le Nazioni Unite)ha mostrato in modo convincente le bugie della leadership ucraina. Affermando che la Russia “interferisce negli affari interni dell’Ucraina”, V. Yelchenko (n.d.T. rappresentante permanente dell’Ucraina presso l’ONU dal dicembre 2015) ha mentito, poiché la Russia non impone la sua cittadinanza, ma la fornisce solo in modo semplificato a coloro che chiedono la cittadinanza russa.

Inoltre, il decreto presidenziale annulla una delle principali condizioni per la concessione della cittadinanza nel modo usuale, vale a dire la necessità di rinunciare alla cittadinanza di altri Stati. I residenti del Donbass possono ricevere la cittadinanza russa, mantenendo la cittadinanza ucraina. Allo stesso tempo, non saranno individui con doppia cittadinanza, ma saranno cittadini

Al Rappresentante ucraino presso le Nazioni Unite rimaneva solamente la profusione in ringraziamenti a quei membri del Consiglio di Sicurezza che hanno condannato il “decreto illegale” e lo hanno paragonato “all’aggressione dell’URSS nel 1939” (?!). Non c’era altro da dire.

Il 27 aprile, il Presidente eletto dell’Ucraina, Zelenskij, ha affermato che le autorità russe non sarebbero in grado di “sedurre” un gran numero di ucraini con i passaporti russi. Ad esempio, “se qualcuno decide di ottenere la cittadinanza russa, lo farà per guadagnare denaro o nel tentativo di sfuggire a un procedimento penale in Ucraina”. Dichiarazioni di questo tipo suggeriscono che Zelenskij non è a conoscenza delle norme del diritto internazionale che disciplinano la concessione della cittadinanza e non e non riesce a riconoscere l’essenza del decreto presidenziale. Mi piacerebbe pensare che sia solo per ignoranza, non più di questo, e non una ripetizione della posizione del precedente governo, che definisce i suoi cittadini “terroristi”, cioè non più cittadini, ma individui fuori legge.

Il decreto presidenziale del 24 aprile è del tutto legale in termini del diritto internazionale e nazionale. Non interferisce in alcun modo negli affari interni dell’Ucraina, essendo una misura di carattere umanitario. Oggi, risolve alcuni problemi vitali che sono sorti in relazione al blocco del Donbass.

 

Alexander Mezyaev

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Questo per chi non ha ancora capito che buffonata è l’UE e cerca di ottenere l’indipendenza attraverso competizioni elettorali italiane. L’indipendenza bisogna prendersela e non metterla ai voti! E’ un nostro diritto naturale! Mettiamoci in testa una cosa: siamo in guerra! 

 

Il giurista Moavero: tocca alla politica dare risposte alle istanze catalane

 

Enzo Moavero, due volte ministro per gli Affari europei nei governi Monti e Letta è uno dei massimi esperti del diritto comunitario. Segue quanto sta accadendo a Barcellona e ragiona con «La Stampa» del domani.

I catalani hanno votato tra le violenze. E adesso?

«Vediamo immagini di tensioni notevole per una vicenda delicata. Su questioni come l’indipendenza, nella storia, si sono combattute guerre e se ne combattono ancora. In Catalogna si è creata una situazione complicata e ora è difficile fare previsioni. Quando ci sono scontri così, purtroppo si riscaldano gli animi e speriamo possano calmarsi».

L’Europa è apparsa in difficoltà. Cosa ci si aspettava da Bruxelles e cosa poteva fare?

«L’Unione europea, pur essendo un organismo molto presente nel nostro quotidiano, può agire solo dove gli Stati membri le hanno assegnato le competenze. In un caso come questo, c’è uno Stato membro che affronta una propria situazione interna, sulla quale ha l’esclusiva competenza giuridica e istituzionale; l’UE non ha nessuna competenza diretta. Anche quando nel 2012, nel Regno Unito ci fu l’accordo per il referendum sull’indipendenza della Scozia, l’UE non intervenne».

I catalani contavano di avere una sponda nei valori dell’UE.

«Questo tema può entrare nel dibattito ma in modo, per così dire, indiretto. Fra i valori fondamentali UE, ce ne sono due che possono essere pertinenti: la democrazia e lo Stato di diritto; e vanno valutati con peso analogo. Sul piano del diritto, la Corte Costituzionale spagnola reputa illegale il referendum catalano ed è quindi legittima l’opposizione del governo centrale. È poi vero che esprimere la volontà popolare con lo strumento del voto risponde ai dettami della democrazia, ma come valutarlo se avviene in un contesto d’illegalità? E’ arduo sostenere la chiara violazione dei valori UE».

Il progetto sia pur lontano di una federazione non contempla con l’Europa dei popoli un discorso sulla loro autodeterminazione?

«Sul piano politico e forse ideologico se ne può parlare. Ma su quello giuridico è diverso: l’autodeterminazione dei popoli, menzionata dalla carta dell’Onu, non appare come tale nei trattati UE. Questi non disciplinano competenze UE a tale riguardo. Del resto, negli anni, l’Europa ha convissuto con eterogenee situazioni riconducibili a istanze d’indipendenza: oltre al ricordato caso scozzese, c’è stata la tragedia dell’Irlanda del Nord, il terrorismo nei Paesi Baschi e la divisione pacifica della Cecoslovacchia».

Se la Catalogna spingesse per la secessione uscirebbe dalla UE?

«Con il referendum scozzese si discusse di questo. Visti i trattati UE, se una regione lascia lo Stato a cui appartiene e diventa indipendente, deve fare una domanda di ammissione all’UE anche se già ne faceva parte. È una lettura formalistica, ma logica. Poi, magari, l’iter di adesione potrebbe durare poco».

C’è il rischio che la Catalogna infiammi le altre braci indipendentiste sopite in Europa?

«I movimenti indipendentisti fanno parte della storia dei popoli. L’Europa non è ancora federale e per diventarlo avrà bisogno di un nuovo trattato. Anche per questo non era necessario regolamentare simili questioni. Del resto, l’UE ha competenze deboli sulla politica estera e di difesa e sulle tasse, questioni ancora appannaggio degli Stati membri. Insomma, non aspettiamoci che l’UE intervenga sempre; può farlo solo dove ha competenze specifiche. Per la tutela dei valori fondamentali avrebbe degli strumenti, ma ne va puntualmente provata la violazione grave».

E se la Catalogna lo provasse?

«L’articolo 7 del trattato UE parla di rischio evidente di violazione grave da parte di uno stato membro dei valori enunciati all’articolo 2 del trattato. Ma di nuovo: nell’articolo 2 si parla sia di democrazia e di diritti delle minoranze, sia di stato di diritto. E qui, pesa l’illegalità del referendum catalano».

Barcellona inizialmente premeva per maggiore autonomia. Non è previsto dalla UE?

«Tra i principi guida dell’azione UE, c’è la sussidiarietà; si prevede che se un obiettivo dell’Unione può essere raggiunto meglio con una azione locale è corretto agire a tale livello. Ma parliamo di atti esecutivi come avviene in Italia con regioni a statuto normale come il Piemonte e con quelle a statuto speciale come la Valle d’Aosta. La questione catalana di oggi è ben diversa. Comunque, le istituzioni europee potrebbero aiutare a calmare la situazione».

Che margini di flessibilità ha l’Europa nel mediare?

«L’Europa e gli Stati amici della Spagna possono impegnarsi per far ritrovare la serenità. È triste che nella UE, nata per la pace e per amalgamare popoli che si sono fatti la guerra fino a 70 anni fa, si riaccendano situazioni conflittuali che, anche sul piano interno o nella forma di tensioni sociali, riproducono quanto dovremmo aver oramai superato».

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Da dove ricomincia, la storia? Dall’alfabetizzazione politica di massa, probabilmente. In parte sta avvenendo, nella macro-nicchia del web (che infatti l’Unione Europea si è affrettata ad arginare, con la legge-bavaglio sul copyright a cui nessun governo si è finora opposto).

 

Puoi avere tutte le ragioni del mondo; ma a che serve, se nessuno ti ascolta? Quanti sapevano chi fosse, Carlo Rosselli, quando fu assassinato? Mezzo secolo dopo, al grande pubblico italiano del 1986, diceva qualcosa di particolare il nome del leader svedese Olof Palme? Ma certo: un elegante signore del Nord Europa, barbaramente ucciso da qualche folle terrorista, più o meno come quelli che avevano appena finito di mettere a ferro e fuoco l’Italia. E alzi la mano chi ricorda come la nostra stampa nazionale diede la notizia dell’omicidio dell’allora più che oscuro Thomas Sankara. Era il giovane leader di un paese africano che, per moltissimi europei, poteva ancora chiamarsi Alto Volta: all’epoca, Nelson Mandela stava ancora a spaccare pietre a Robben Island, e l’espressione “Burkina Faso” non era ancora entrata nell’ordinario lessico geografico dell’uomo bianco. Ci vollero anni – Internet, YouTube – per trasformare Sankara in una specie di star della politica: è l’ex ragazzo in camicia verde che, al vertice panafricano di Addis Abeba, svela la schiavitù del debito e propone all’Occidente di smettere di “aiutare” l’Africa.

Per far uscire Thomas Sankara dalle catacombe della memoria collettiva c’è stato bisogno dell’11 Settembre, lo choc che ha costretto gradualmente milioni di persone a interrogarsi sulla natura del cosiddetto Deep State. Strana nebulosa, a geometria variabile: domina il pianeta manipolando i governi o scavalcandoli, al limite azzerandone i leader più scomodi – già rarissimi ieri, e oggi pressoché introvabili. Tuttora, comunque, vastissimi strati dell’opinione pubblica continuano a restare scettici di fronte alla denuncia della manipolazione della storia e dell’attualità: tendono ad allinearsi al mainstream che reputa fantasiosa la teoria del complotto, boccia le verità alternative sull’11 Settembre, si rassegna alle campagne sanitarie di massa come il Tso infantile dei vaccini imposti senza spiegazioni. E ovviamente deride chi “crede alle scie chimiche”, preferendo non domandarsi per quale ragione il cielo non sia più blu, ma vistosamente rigato, ogni giorno, dalle tracce persistenti rilasciate dagli aerei. Ci si rifugia dietro comodi neologismi (complottismo, cospirazionismo) per liquidare domande fastidiose, anche col provvidenziale contributo degli stessi “complottisti”, spesso prontissimi a sfornare risposte grottesche, surreali e sensazionalistiche.

A monte, però, le domande restano sempre inevase: e questo spiega il fiorire delle narrazioni recenti, anche le più improbabili. Cosa sta succedendo, davvero? Nessuno può garantire di saperlo con precisione. Molti si rendono conto, onestamente, di esserne all’oscuro. Per questo smettono di seguire i telegiornali – tempestivi nel dar conto degli eventi, ma senza mai spiegarli. Se oggi riapparisse in televisione Thomas Sankara, quale anchorman sarebbe in grado di intervistarlo? Vespa e Floris, Formigli e Gruber: da che parte comincerebbero, dovendo fare domande all’avatar di Olof Palme? La nostra attuale comunicazione – smart, ultra-semplificata, a risposta immediata – non prevede più il modulo dell’analisi: ce ne manca il tempo. Nel mainstream risulterebbe semplicemente favolistico il racconto sul Memorandum di Lewis Powell, a cui l’élite occidentale chiese – nel remoto 1971 – un vademecum per “riprendersi tutto”, sbaraccando la democrazia dei diritti sociali. Facile: dall’altra parte del mondo c’era ancora il gigantesco freezer dell’Unione Sovietica, e di lì a poco i neoliberisti avrebbero potuto agevolmente indossare la maschera reaganiana dei liberatori, dei vincitori definitivi, ritagliandosi persino il ruolo di tronfi celebranti della “fine dalla storia”.

Da dove ricomincia, la storia? Dall’alfabetizzazione politica di massa, probabilmente. In parte sta avvenendo, nella macro-nicchia del web (che infatti l’Unione Europea si è affrettata ad arginare, con la legge-bavaglio sul copyright a cui nessun governo si è finora opposto). La buona notizia, forse, è che l’invisibile Deep State in fondo ha paura dei sudditi, visto che si affanna a mantenerli nella quiete apparente della false certezze, nonostante i colpi mortali di una crisi che sta letteralmente cancellando la classe media in Europa, al punto da riempire le strade francesi di gilet gialli. Economia, moneta, guerre, energia, clima, crisi regionali. Scampoli di verità? Su qualche libro, nei risvolti del web, in mezzo alle smancerie dei social. Per gli ottimisti, l’umanità si starebbe risvegliando da una sorta di letargo. Non che manchino segnali di consapevolezza, ma sono sovrastati dal fragore del mainstream. Oggi finalmente si ascoltano relazioni acutissime da economisti onesti, che però non saranno mai ospitati in prima serata, con piena facoltà di parola. Si saranno divertiti, gli arconti impalpabili, nel vedere che l’Italia della gloriosa rivoluzione gialloverde non si è nemmeno ribellata al diktat medievale di Bruxelles sul piccolo deficit invocato per il 2019. Il potere imperiale, neo-feudale, ha incassato una vittoria piena. E si è persino goduto le passeggiate di Macron e Juncker sui teleschermi della Rai, tra gli inchini dello sconcertante anti-italiano Fabio Fazio.

Ha davvero paura della maggioranza, il famoso 1% contro cui naufragò la pletorica protesta di Occupy Wall Street? Di certo, scrive Franco Fracassi nel saggio “G8 Gate”, aveva una paura matta dei NoGlobal, il cui sanguinoso funerale fu organizzato a Genova nel 2001, due mesi prima della mattanza di Manhattan (3.000 morti nelle Torri Gemelle e altri 12.000 americani uccisi dal cancro, poco dopo, a causa dell’immensa nube d’amianto). A dire che le maggiori multinazionali planetarie temessero così tanto i NoGlobal è Wayne Madsen, all’epoca dirigente dell’intelligence Usa: racconta di 1500 agenti della Nsa, più 700 dell’Fbi, al lavoro per essere certi che nel capoluogo ligure tutto andasse secondo i piani, cioè malissimo. Deep State, appunto. All’occorrenza, la legge del terrore: Al-Qaeda e poi l’Isis, dalla Siria all’Europa. Di fronte a questo cos’hanno da dire, i novelli sovranisti? Come se la caverebbero, Salvini e Di Maio, al cospetto di personaggi come Rosselli, Palme e Sankara? Cosa inventerebbero, il leader della Lega e quello dei 5 Stelle, per tentare di spiegare come riesumare il socialismo liberale nell’Europa di oggi? Che figura farebbe, Di Maio, nel presentare il suo reddito di cittadinanza al gigante Olof Palme, inventore del miglior welfare europeo? E cosa racconterebbe, il mini-sceriffo Salvini, al sorriso luminoso dello stratega che sapeva di giocarsi la pelle nell’eroico tentativo di metter fine alla razzia bianca a spese del continente nero, da cui l’esodo tanto spettacolarizzato dalle opposte tifoserie odierne?

Davvero è inquieto, il mitico 1%, nel dubbio che i popoli si sveglino? Ammesso che sia vero, sembra che gli ultimi a saperlo siano proprio gli abitanti dell’umanità sottostante, il 99%. Al massimo, votiamo per l’ultima protesta offerta dal supermarket della politica, una specie di discount ingombro di sottomarche low cost. Per ora ha stravinto l’impeccabile Lewis Powell: il suo Memorandum è stato applicato alla lettera. I pochi dominano sui molti, che infatti non sanno nemmeno chi fosse, quell’avvocato di Wall Street. Il pericolo, semmai, siamo abituati a riconoscerlo nel sorriso sornione di personaggi come l’anziano Kissinger, l’architetto del golpe cileno, l’uomo che minacciò di morte Aldo Moro. Che sospiro di sollievo, quando il fenomenale Obama prese il posto di Bush. Ennesima illusione, durata lo spazio di un mattino: quasi solo teatro, ancora e sempre Deep State. Da dove ricominciare? Da ciascuno di noi, verrebbe da dire, nel dubbio che l’ipotetico “mostro” tema, sul serio, il risveglio dei dormienti. Primo passo, scovare idee che possano camminare. E poi raccontarle, in modo semplice: il Memorandum Powell, che ha cambiato la faccia della Terra, era lungo appena 11 paginette. Parlava chiaro anche Rosselli, così come Palme e Sankara: nessuno deve restare indietro, mai. L’italiano, lo svedese, il burkinabè: veri e propri monumenti, postumi, all’umanità che non si volle far nascere. Li si potrà riascoltare a Milano il 3 maggio, a patto però di non dimenticarli più. Morirono, tutti e tre, perché il 99% non era al loro fianco. E non è un testamento, quello che ci hanno lasciato: è un programma politico, e sembra scritto oggi.

Giorgio Cattaneo

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Via i nomi dei reali di casa Savoia dalle strade del paese. È la decisione della giunta comunale di un piccolo centro della provincia di OristanoScano Montiferro, guidata dal primo cittadino Antonio Flore Motzo. La giunta, come riporta il quotidiano La Nuova Sardegna, ha stabilito che i nomi dei reali piemontesi dovranno essere sostituiti con quelli di alcuni personaggi locali che con la loro vita e le loro opere hanno dato lustro alla comunità e, dove possibile, siano ripristinati i toponimi originali in “limba”.

Perché la decisione diventi operativa è necessario, però, attendere i pareri di prefettura e soprintendenza. A cambiare nome saranno il corso Vittorio Emanuele III, che diventerà corso Padre Salvatore Pala, la via Carlo Alberto che prenderà il nome di via Antonio Trogu, il largo Vittorio Emanuele II diventerà piazza Francesco Porcu, la piazza Regina Elena prenderà il nome di Carrela de Funtana e la piazza Umberto acquisirà il nome di Carrela de Putu.

Il dibattito sulla presenza dei nomi dei reali nelle strade dell’Isola è in corso da tempo, a Cagliari c’è stato chi ha proposto addirittura di eliminare dal cuore della città la statua di Carlo Felice. La scelta dell’amministrazione di Scano Montiferro, stando a quanto scrive il sindaco nella sua pagina social, è motivata dalle azioni violente messe in campo dai re sabaudi, sempre contro la popolazione. A essi viene attribuita anche la responsabilità della rovina del patrimonio boschivo e gli esiti provocati ai più deboli dall’editto delle chiudende, che spartiva la terra collettiva tra poche persone.

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