11 Dicembre 2013

La retorica del “tutti sono uguali” è una retorica distruttiva e alla fine reazionaria. Il qualunquismo è una brutta bestia e ci mette un attimo a mostrarsi per quello che è: fascismo dissimulato. Nella ignoranza diffusa, le semplificazioni emotive hanno vita facile. Togliere strumenti critici alle masse, impoverire la cultura politica della cittadinanza, indebolire la scuola e l’università, togliere spazi al libero esercizio della creatività e della differenza di visione non portano a forme di maggiore emancipazione sociale e culturale, ma a facili strumentalizzazioni del malessere diffuso.

Purtroppo la storia è pressoché sconosciuta ai più, altrimenti sarebbe evidente la similitudine tra questi nostri anni e quelli tra il 1919 e il 1925. Allora la guerra aveva lasciato ovunque strascichi dolorosi e una situazione socio-politica fragile. Le spinte dei tempi erano troppo più forti della capacità politica delle classi dominanti. In Sardegna il fenomeno era ancor più evidente, con i reduci dal fronte determinati a cambiare in meglio la propria sorte e quella dell’intera isola, mentre la politica di stampo coloniale e clientelare che aveva prevalso negli ultimi cento anni non aveva più nulla da dire alle masse. Sappiamo che se non fosse stato per la debolezza culturale della leadership del movimento dei reduci e del PSdAz, gli esiti di quella stagione sarebbero stati diversi dalla normalizzazione che seguì ai successi elettorali dei sardisti (normalizzazione che si sostanziò nella rinuncia a un processo di autodeterminazione vero, con la sanzione simbolica del passaggio al fascismo di una parte consistente del PSdAz medesimo).

Cosa sia successo in quegli anni, almeno a grandi linee, dovremmo tenerlo a mente tutti. Del marasma dei movimenti di piazza e del malcontento generalizzato trasse vantaggio chi possedeva l’intelligenza politica e la mancanza di scrupoli necessarie a cavalcare la crisi con parole d’ordine semplici, con narrazioni forti quanto sentimentali, che rimuovevano la complessità del divenire storico e offrivano un prontuario ideologico facile facile e ampiamente deresponsabilizzante. L’appoggio della classe dominante, desiderosa di cambiare tutto per non cambiare niente, non tardò ad arrivare. Ovviamente sto parlando di Mussolini e del fascismo, con i suoi emuli e i suoi ammiratori sparsi per l’Europa e per il mondo intero.

La diseducazione alla complessità e la perdita di punti di riferimento ideali e istituzionali non portano mai a niente di buono, oggi come allora. Se manca una elaborazione intellettuale onestamente problematica delle forze che animano le nostre relazioni, dei rapporti di produzione in cui siamo inseriti e delle forme narrative di cui si alimenta la nostra vita comunitaria, davanti a una crisi sia materiale sia spirituale siamo nelle mani degli uomini della provvidenza, dei capi carismatici, del pensiero debole. Niente di emancipativo può venir fuori da questi processi.

Oggi, che l’Europa conosce una stagione di nuovi nazionalismi e di derive xenofobe e reazionarie, che l’Italia è percorsa da un movimento a tratti squadristico come quello dei “forconi” e la Sardegna, a parte i forconi nostrani, è interessata in generale dalla crisi del sistema di potere fin qui dominante, dobbiamo essere più vigili che mai. Per chi ha spadroneggiato sulla scena fin qui e per chi vuole spadroneggiare ancora, la tentazione di strumentalizzare il malcontento a vantaggio di interessi costituiti è pressoché irresistibile. Usare parole d’ordine apparentemente liberatorie ma in realtà prive di senso politico e di visione d’insieme, garantisce la mobilitazione dei delusi e un facile consenso, ma non è la base su cui costruire alcunché di solido, pacifico e democratico.

L’atteggiamento prevalente nell’establishment sardo è di tipo chiaramente conservativo. Chi ha ruoli che producono vantaggi, tende a difenderli con qualsiasi mezzo, a volte – furbescamente – appropriandosi di temi o slogan dei propri avversari o apparentemente controproducenti per sé e per la propria parte. Così facendo, invece, li depotenzia e li piega a facile strumento di controllo. Altri, che magari non appartenevano fin qui alla classe dominante, provano ad approfittare dell’indebolimento politico e culturale attuale per essere ammessi tra le sue schiere, proponendosi come provvidenziale foglia di fico da ostentare davanti alle strutture di potere consolidate, onde renderle presentabili e al passo con i tempi. Anche questo non è un inedito, in fondo.

In Sardegna d’altra parte manca totalmente un tessuto intellettuale libero e svincolato da interessi costituiti. O, se c’è, è frammentario e minoritario. Per lo più l’elaborazione teorica e politica, la comunicazione attraverso i mass media e la diffusione della cultura e dell’istruzione attraverso le agenzie formative formali e informali soffrono di un pesantissimo conformismo al sistema di potere imperante e sono irretiti da un rapporto equivoco e subalterno con le filiali locali dei partiti e dei centri di interesse italiani. Da quella parte è difficile che arrivino contributi critici emancipativi. Può giusto manifestarsi una difesa a oltranza dello status quo, a volte con argomentazioni penose e evidentemente disperate, ma niente di più.

Se però si nutre l’aspirazione a un processo di emancipazione collettiva, di liberazione delle forze sane della società, verso un orizzonte più aperto, più democratico e più responsabile, l’unica strada è quella del rafforzamento dei presidi culturali e relazionali, in nome di una complessità che non si può eliminare, ma solo affrontare ben equipaggiati, per non esserne schiacciati.

È fondamentale, per questo, indebolire e se possibile sconfiggere l’assetto della dipendenza e i suoi risvolti assistenzialistici, rivendicazionisti e spesso falsamente liberatori di cui è costellato il nostro ambito politico, amministrativo ed economico. Sono la dipendenza e la sua ideologia, il dipendentismo, il vero nemico da abbattere. Ipotizzare un processo di autodeterminazione che sia anche democratico ed emancipativo senza fare i conti con questo elemento è un mero esercizio retorico o un inganno. Se pure un giorno la Sardegna diventasse un ordinamento giuridico sovrano, uno stato indipendente, ma non avesse abbattuto gli assetti della dipendenza e i loro effetti materiali e culturali diffusi, la stessa indipendenza potrebbe rivelarsi un mero espediente formale. Saremmo comunque in balia di forze più grandi di noi, di centri di interesse capaci di manipolare e di piegare ogni processo al proprio tornaconto, di operazioni speculative e invasive facilmente presentabili come convenienti, ma in realtà distruttive. Quanto e più di quel che sta già succedendo ora.

Il processo che ci porterà all’autodeterminazione e i suoi contenuti ideali, pragmatici e culturali determineranno la qualità della nostra esistenza da qui ai prossimi decenni. La vacua retorica para-nazionalista o pseudo-rivoluzionaria, usata per mistificare richieste di assistenzialismo ancora maggiore e forme di subalternità deresponsabilizzante ancora più profonde, non è alleata, in questo cammino, ma è un ostacolo, o un avversario. Per questo tutti i sardi che abbiano a cuore il proprio benessere e la propria dignità, la giustizia sociale e la possibilità di interagire col mondo circostante come soggetto della propria storia dovrebbero sopra ogni altra cosa contribuire ad abbattere la dipendenza e il dipendentismo in ogni loro forma, per quanto amichevoli essi possano sembrare. Lì sta il nocciolo del problema e lì bisogna agire. Subito. Adesso

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2013.12.10 – Grazia Deledda, emblema di un equivoco storico

Posted by Presidenza on 10 Dicembre 2013
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Ricorre oggi l’anniversario del conferimento del premio Nobel a Grazia Deledda, nel 1926, evento tanto evocato quanto bistrattato della nostra memoria collettiva. Il riconoscimento internazionale pare aver fatto più male che bene alla considerazione diffusa della scrittrice nuorese, trattata spesso come un’usurpatrice di fama immeritata, o – dai sardi – come una traditrice della sua stessa stirpe. Anche il discorso strettamente letterario sul suo conto è fortemente polarizzato tra gli appassionati e i denigratori, ma questi ultimi prevalgono di gran lunga.

Una prima difficoltà nel rievocare e nel valutare la figura di Grazia Deledda è segnalata dalla sua complicata collocazione nel panorama letterario. Intanto, collocazione in quale panorama letterario? La risposta più scontata è che il panorama letterario di riferimento debba essere quello italiano. Prendendo per buona questa collocazione, emergono immediatamente i dubbi, le contraddizioni e le oscillazioni critiche dovute alla condizione anche personale (oltre che letteraria) ambigua della Deledda.

Nata e cresciuta sardofona, aveva imparato l’italiano (male, a suo dire) da grande, più dalla lettura e dallo studio personale che dalla scuola. Di scuola del resto ai suoi tempi se ne faceva poca. Giusto due anni o tre. E non c’entra molto, qui, come invece viene quasi sempre dichiarato, la questione di genere. I bambini sardi, maschi o femmine che fossero, se non appartenevano a classi privilegiate e non erano destinati allo studio o alla tonaca, la scuola la abbandonavano comunque presto, posto che la iniziassero. Si trattava, però di una persona intelligente e talentuosa, ben al di là del grado di istruzione raggiunto. Su questo non credo possano esserci dubbi. E anche ambiziosa. Ecco, questa caratteristica, che poi le ha fatto fare le scelte che ha fatto, è forse quella che è stata capita di meno, a Nuoro, dai suoi contemporanei. A Grazia Deledda stava stretta la condizione periferica in cui sentiva costretta la sua verve narrativa e la sua sete di conoscenza del mondo. Inoltre è lecito supporre che lasciare Nuoro fosse necessario anche dal punto di vista professionale, per non farsi irretire dai condizionamenti che la sua permanenza nei luoghi scelti per i suoi romanzi le avrebbe procurato.

Tuttavia è evidente la sofferenza e l’incompiutezza, alla fine, del rapporto sentimentale e intellettuale della Deledda con la propria terra. Consapevole della sua estraneità al contesto culturale italiano, nel quale doveva inevitabilmente operare (l’alternativa era il dilettantismo locale, non certo la fama mondiale), non poteva che cercare forme di mediazione e di ibridazione che fossero al contempo soddisfacenti per lei e efficaci in termini di effetto narrativo. Il suo stile, così enigmatico per i critici, si giovava della sua sardofonia, costringendo gli elementi lessicali e morfologici italiani dentro un contesto sintattico e un campo di connotazioni e riferimenti del tutto sardi.

Ma questo è l’aspetto meno colto dai lettori e anche dalla critica, che invece (gli uni e l’altra) si soffermano molto di più sui contenuti e sulle ambientazioni delle narrazioni deleddiane. Lì si gioca il conflitto – spesso acerrimo – tra detrattori e ammiratori della scrittrice. Lì emerge la difficoltà di rappresentare la Sardegna e i sardi in termini romanzeschi rivolgendosi a un pubblico che della Sardegna aveva (e ha) un’idea sostanzialmente folkloristica, o da cartolina.

Spesso alla Deledda è stato rimproverato di aver contribuito alla costruzione del mito identitario sardo nei termini debilitanti e subalterni in cui si è formato. Gli anni della costruzione di questo mito tecnicizzato sono gli stessi del suo percorso biografico e del suo successo letterario, in fondo. Ma occorre anche precisare che la stessa Deledda dentro questo mito identitario ci era cresciuta e si era formata. Lei stessa doveva sopportare la difficile dialettica tra la Sardegna reale, la sua complessità, i suoi problemi, e la Sardegna oleografica delle storie di banditismo o di avventure esotiche, affrontare il nodo della profonda intraducibilità culturale che l’appartenenza dell’isola allo stato italiano unitario aveva generato. E di questo la stessa Deledda soffriva, come traspare dal suo epistolario e dalle sue dichiarazioni pubbliche.

L’impressione è che si scarichi su Grazia Deledda una responsabilità che in realtà è molto poco sua e appartiene invece a tutta la classe intellettuale sarda tra Ottocento e Novecento, molto più che a lei. Alla classe intellettuale sarda come funzione organica del sistema di potere operante in Sardegna, allora e oggi.

La Deledda è vittima da un lato di un’ostilità eccessiva o non del tutto giustificata (in termini politici e culturali) da parte dei sardi (suoi contemporanei e anche attuali), dall’altro di una sorta di costante tentativo di ridimensionamento, operato dall’accademia italiana, che non sfocia nella damnatio memoriae solo in virtù del Nobel assegnatole. Basti leggere la voce relativa alla scrittrice nuorese sulla Treccani o nel Dizionario biografico degli italiani illustri (sempre della Treccani), per capire come sia valutata l’opera e la figura della deledda dall’establishment intellettuale italiano. Voci ancora oggi infarcite di razzismo, pressapochismo storico e informazioni spesso parziali o fantasiose sulla Sardegna di quegli anni.

Grazia Deledda, insomma, è un esempio piuttosto significativo del travaglio della Sardegna contemporanea. Travaglio che non ha risparmiato niente e nessuno, nemmeno chi apparentemente ha tratto vantaggio dalla nostra dipendenza intaliana. Più che con lei, la critica dovrebbe prenderselapiuttoso con chi ha cercato di scimmiottare il suo stile o le sue ambientazioni. L’estraneità della Sardegna alla storia e alla geografia italiane è derubricata, nell’ambito editoriale e novellistico italiano, a esoticità regionale, a pittoresco, a bozzettistico, con l’avallo e la certificazione dell’accademia e dell’intellettualità sarde. Un modo efficace di depotenziare il problema e depurarlo della sua problematicità politica.

Di questo tuttavia non possiamo accusare Grazia Deledda. che alla fin fine dovrebbe essere valutata più correttamente come una dei massimi epigoni della letteratura nazionale sarda in italiano, più che come un’esponente della letteratura italiana regionale (dunque minore). La forza narrativa dei suoi scritti, la loro efficacia letteraria ne emergerebbero compiutamente, al di là dei gusti e delle mode, e anche delle polemiche dovute alla nostra cattiva coscienza di sardi minorizzati.

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2013.12.10 – L’eredità di Nelson Mandela

Posted by Presidenza on 10 Dicembre 2013
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Simone Tatti

Sono anni, ormai, che la parola cambiamento risulta essere una tra quelle più usate da chi, specialmente in campagna elettorale, vende aspettative sotto costo ad un elettorato ormai stanco e disilluso. Promesse che, nel corso del tempo, sono state sistematicamente disattese, mettendo in evidenza una tangibile incoerenza tra le parole e i fatti e innescando un sentimento di sfiducia e rassegnazione da parte di chi in un cambiamento ci credeva veramente. Un rinnovamento che, alla luce dell’inaccettabile numero di degenerazioni presenti nella nostra società, non solo è doveroso ma necessario, affinché si ridia la giusta importanza a quei valori repubblicani che con il trascorrere del tempo sono andati perduti.

Siamo tutti, o quasi, consapevoli dell’infinità di anomalie che caratterizza la nostra società. Ciò nonostante non ci adoperiamo abbastanza affinché qualcosa cambi, ma attendiamo passivamente che qualcuno risolva i problemi al posto nostro. Siamo cresciuti con l’idea che non serve essere bravi, ma avere la conoscenza giusta. Non crediamo nella giustizia e siamo sempre pronti a puntare il dito verso qualcun altro. È questo il motivo fondamentale per cui, in alcuni casi, continuiamo ad essere rappresentati da uomini che hanno fatto della politica una semplice professione e con il trascorrere del tempo hanno perso di vista le priorità fondamentali del loro pubblico operare.

“Cambiare” significa anzitutto ritrovare il giusto equilibrio. Rimettere in primo piano l’istruzione, il merito e la giustizia. Contrastare le nuove povertà e correggere gli squilibri sempre più insopportabili nella distribuzione della ricchezza. Recuperare la fiducia nella democrazia e nella politica come esercizio alto della responsabilità collettiva dei cittadini in nome del bene comune. Investire sul lavoro come perno di sviluppo sociale ed economico. Ridare centralità ai giovani riappianando la spaccatura generazionale che si venuta a creare nel corso degli ultimi decenni.

Nel primo editoriale della nostra avventura, firmato da Antonello Menne, si faceva riferimento ad un uomo che nel cambiamento ci ha creduto veramente. Un uomo che ha sacrificato la propria libertà per far si che le cose non rimanessero immutate cosi come le si erano sempre conosciute. Un personaggio che grazie al suo carisma, del cambiamento diventò l’emblema. Un politico che trasformo il Sud Africa nello stato più avanzato dell’intero continente africano e fu convinto sostenitore di giustizia sociale ed egualitarismo.

Non sono bastati 26 anni di reclusione per intaccare l’intensità delle idee in cui credeva, né un premio Nobel per accrescerne il suo ego. Nelson Mandela rimase per tutta la vita persona semplice e determinata, capace di lottare ma disposta a tendere la mano. Sosteneva che la schiavitù, cosi come la povertà, sono mere condizioni umane, ed in quanto tali, facilmente eliminabili se solo ci fosse la volontà politica per farlo.

Muore un uomo ma rimangono le sue idee, il suo coraggio, il suo esempio. Perché cambiare le cose, in fondo, se lo si vuole, non è poi cosi difficile come si crede.

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2013.12.09 – La rivoluzione contro il nuovo ordine Mondiale

Posted by Presidenza on 9 Dicembre 2013
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tramonto al sud del sud del sud del mondo… – foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati)

di Gianni Lannes

 

Nel mondo del 21 secolo sono stati attribuiti poteri praticamente illimitati ad esseri viventi immaginari ed incorporei per dominare e sfruttare qualsiasi espressione o risorsa della Terra.

Tali aziende di capitale ed altri soggetti giuridici non hanno ovviamente emozioni, coscienze, valori, etica, né la capacità di essere in comunione con gli altri esseri viventi della comunità di Gaia.

David Rockefeller: mafioso, terrorista e criminale mondiale

Anzi, le aziende hanno appetiti intrinsecamente predatori – sorretti da leggi e normative che producono queste realtà e la loro stessa costituzione – competono per accaparrarsi aggressivamente il controllo di madre natura, al fine di consumarlo il più velocemente possibile, incuranti delle conseguenze a lungo termine per il globo terrestre ed i suoi figli.

Le aziende di capitale sono 51 delle 100 unità economiche più ricche del mondo (le altre sono nazioni), ma nonostante le prime 200 aziende di capitale detengano più del 25 per cento delle attività economiche della Terra, esse impiegano meno dell’1 per cento della forza lavoro a livello mondiale.

Così si licenzia il lavoro produttivo e si assume solo il mero profitto economico.

I ristretti gruppi di potere dominanti del nostro mondo sono convinti che la nostra specie – o meglio solo alcuni individui –  sia superiore rispetto alle altre e che abbia il diritto di governare, ovvero danneggiare Gaia.

Abbiamo rifiutato la biosfera dentro la quale siamo nati, e abbiamo eretto un macrocosmo solo per esseri umani sigillato ermeticamente dentro la nostra mente.

E’ una serra dentro la quale i nostri ego possono crescere a dismisura gonfiati dalla presunzione di essere i padroni dell’universo. Nell’omosfera contano solo sparuti individui preferibilmente maschi, mentre tutti gli altri sono considerati inferiori come le donne, gli animali e le piante.

I sistemi “legali” dominanti sono tutti basati sull’assunto che gli esseri umani esistono solo dentro la propria pelle e che noi siamo gli unici esseri o soggetti dell’universo, ogni altra creatura vivente è invece definita come oggetto (da sfruttare fino all’estinzione).

Le società dominanti controllano il mondo sulla base di una falsa cognizione dell’universo. La tesi è fuorviante: gli esseri umani sono separati dal loro ambiente e si può prosperare lo stesso mentre la salute della Terra deteriora ogni giorno.

Infatti, sulla base di questa distorsione percettiva e cognitiva, gran parte degli umani sono convinti che la salute ed il benessere dipendano dallo sfruttamento della Terra preferibilmente con la velocità consentita dalla tecnologia e dalla domanda di mercato, piuttosto che dalla conservazione dell’ecosistema globale.

Le strutture di governo, i codici giuridici e la giurisprudenza, le leggi imposte riflettono e consolidano l’illusione della separazione e dell’indipendenza. Ciò incoraggia e legittima un comportamento ambientale e sociale distruttivo, intralciando lo sviluppo di forme di organizzazione sociale più appropriate da parte di chi non sottoscrive i miti sociali dominanti. I sistemi amministrativi sono assemblati per non arrestare ed invertire questo comportamento autodistruttivo.

In una battuta: il diritto umano non riconosce che l’universo è una comunione di soggetti, e non una collezione di oggetti da possedere, sfruttare e gettare via.

La salute è ormai un lusso. Il numero delle malattie è in vertiginoso aumento. I dati ufficiali seppure edulcorati e sottostimati rivelano qualcosa di incredibile. Il numero dei malati di tumore è aumentato del 400 per cento in breve tempo: le persone stanno sempre peggio in tutti i sensi, ma non osano ribellarsi. Un terzo di tutte le patologie è causato da esposizione all’ambiente contaminato. 

Sull’intero pianeta Terra la salute del genere umano è condizionata sempre più dai cambiamenti che le forze armate provocano all’ecosistema. Solo per fare un esempio: ogni anno oltre 2 milioni di persone muoiono a causa dell’inquinamento dell’aria.

Attualmente sono note 40 mila malattie ed in commercio si trovano ben 58 mila medicinali legalizzati. La maggioranza delle malattie non sono predeterminate geneticamente, ma dipendono da fattori storici e sociali.

Mentre a milioni muoiono di fame o di malattie assolutamente prevenibili, altri nelle nazioni “ricche” mangiano fino a morirne.

Un quinto della popolazione mondiale, quello più ricco in termini materiali, è responsabile di quasi il 90 per cento del consumo totale individuale, mentre 1,2 miliardi di persone sopravvivono – mediamente – con meno di un dollaro al giorno. Alla somma della vergogna vanno aggiunti quasi 2 miliardi di analfabeti e 2 miliardi di persone che non hanno mai visto l’energia elettrica.

Nel frattempo la scienza lavora alacremente allo sviluppo di tecnologie per modificare geneticamente e clonare l’homo sapiens così da produrre pezzi di ricambio che prolunghino la vita a pochissimi privilegiati, ossia a chi potrà permetterselo in termini economici.

Si sta gettando la Terra nella discarica dell’avidità umana, sacrificando tutto nel nome degli insaziabili dèi del progresso e dello sviluppo. E’ fin troppo evidente che le società “umane” e post-industriali non sopravviveranno molto più a lungo nella loro forma presente.

Il nostro campo mentale si è ristretto, così come è stata assottigliata, per non dire annullata completamente la nostra libertà di pensiero e di movimento. Qualcuno se n’è accorto?

Siamo immersi in un tempo in cui tutti tentano di comunicare, ma pochi hanno veramente qualcosa di significativo da dire.

Che fare? Mutare il paradigma economico imperante, ovvero il consumo illimitato di risorse, ed annicchilire la passività dilagante.

Ogni cosa è interconnessa ci insegna l’ecologia. E’ fondamentale mettere in pratica una nuova cognizione di governo dell’umanità, come componente di un più ampio mutamento sociale che punti ad una nuova visione del mondo.

 Bisogna vivere in un mondo migliore. Non bisogna soltanto sognarlo ad occhi aperti, ma costruirlo nella realtà quotidiana. Allora spegnete la televisione, accendete la mente ed aprite il cuore, passando all’azione pratica di rivoluzione prima di tutto interiore.

tratto da : (clicca qui)

2013.12.08 – Ecco a voi la sanguisuga dei nostri titoli di Stato

Posted by Presidenza on 8 Dicembre 2013
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L’esistenza e i fini di StratCap sono emersi grazie ai dispacci pubblicati da Wikileaks.

di Franco Fracassi

Avete presente i famosi mercati citati in continuazione da politici nazionali ed europei da qualche anno a questa parte? E lo spread lo avete presente? Ebbene, oggi tutto questo sistema può avere un nome. Si chiama Stratfor, la più grande agenzia di servizi segreti del mondo. Secondo quanto rivelato dai dispacci resi pubblici da Wikileaks, l’Agenzia avrebbe al suo interno una sezione super segreta che si occuperebbe di raccogliere informazioni su governi e aziende sparse in tutto il pianeta per poter investire pesantemente sul mercato valutario e su quello borsistico. Il tutto in collaborazione con la più potente banca del mondo: la Goldman Sachs. Politica societaria, questa, che costituisce reato in tutti i Paesi occidentali, il reato di insider trading.

221 West 6th Street, Austin. Nella suite numero 400 di un grattacielo al centro della capitale del Texas si trovano gli uffici di Stratfor. Undici analisti senior e decine di impiegati e agenti sul campo, oltre a migliaia di informatori dipendenti di governi, enti governativi, grandi aziende, forze armate, servizi segreti, giornali e televisioni. Un intero servizio segreto che lavora per far prosperare alcune centinaia di multinazionali, banche e governi, come quello dell’Arabia Saudita.

Un esempio? Quando in Bahrein si stava organizzando una protesta popolare in favore dell’introduzione della democrazia in quel piccolo, ma ricco, emirato del Golfo Persico, un serbo (Srdja Popovic) che stava aiutando, finanziando e addestrando quei rivoluzionari in erba passò all’Agenzia informazioni sui gruppi di protesta e sulle azione che avrebbero compiuto. Popovic fornì anche i nomi dei leader di questi gruppi. Quando, poi, centinaia di migliaia di persone manifestarono a favore della democrazia (come era accaduto pochi mesi prima in Egitto) intervennero direttamente i carri armati sauditi, invadendo il Bahrein e soffocando nel sangue la protesta. Inutile dire che tutti i leader che non erano riusciti a fuggire all’estero vennero catturati e imprigionati.

Un altro esempio? Il Dipartimento di Stato Usa nel 2010 decise che la crisi rappresentava un’ottima opportunità per mettere in ginocchio l’Europa, storica rivale economica e politica di Washington. Gli agenti di Stratfor a suon di milioni di euro corruppero centinaia di persone piazzate in posti chiave all’interno di alcuni Paesi europei «considerati a rischio». Le informazioni ottenute vennero passate al partner bancario dell’Agenzia (Goldman Sachs) che scatenò una specie di tempesta monetaria perfetta che mise in ginocchio quei Paesi. Uno dei quali era l’Italia.

Non si tratta di un complotto massonico internazionale. Si tratta di politica, si tratta do profitto e, soprattutto, si tratta di centinaia di migliaia di email rese pubbliche da Wikileaks.

Stratfor è così potente da aver avuto completo accesso ai documenti sequestrati nel presunto covo di Osama bin Laden in Pakistan, dove il leader di Al Qaida sarebbe stato ucciso.

Nell’agosto 2011 l’amministratore delegato dell’Agenzia texana George Friedman scrisse confidenzialmente ai suoi collaboratori: «Stiamo violando in continuazione la legge federale americana e anche le leggi internazionali, che vietano di corrompere funzionari pubblici per ottenere informazioni riservate. Voglio che tutto ciò sia chiaro. Per questo motivo da qui non deve uscire nulla, nemmeno un fiato su ciò che stiamo facendo».

L’accordo tra Freidman e il direttore finanziario di Goldman Sachs (Shea Morenz) risale al 2009. L’idea è quella di «utilizzare l’intelligence per fare soldi a palate». Goldman Sachs e Stratfor crearono un servizio super segreto all’interno della stessa agenzia: StratCap.

«StratCap utilizzerà le informazioni e le analisi di Stratfor per agire sul mercato azionario, e in particolare su quello delle monete e affini», scrisse in un’email confidenziale Friedman a un alto funzionario del Dipartimento di Stato, con cui Stratfor tutt’ora agisce in partnership alla pari. Sull’intestazione dell’email c’era scritto, maiuscolo: «Da non far leggere o discutere con nessun altro».

Da allora c’è una fitta corrispondenza elettronica tra Friedman e Morenz che sottolinea come Goldman Sachs, grazie alle informazioni ricevute da StratCap, e agli input del Dipartimento di Stato, investì miliardi di dollari nel mercato valutario europeo e in quello dei titoli di Stato.

In un’altra email, questa volta diretta a un analista senior di Stratfor, Friedman scrisse: «Quello che stiamo facendo non è alieno da Stratfor. Le informazioni servono per incrementare il portafogli dell’Agenzia e ad accreditarci sempre di più nel mondo dell’alta finanza».

L’ultima email resa pubblica risale al 2012. Friedman fa sapere a Morenz che «StratCap ha completato la sua creazione. Da questo momento potremo agire al massimo delle nostre possibilità».

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Sul sito dell’U.N.A.C. (Unione Nazionale Arma Carabinieri) leggiamo una breaking news inquietante: ”L’Arma verso lo scioglimento. L’Unione Europea impone la smilitarizzazione della quarta Forza Armata e l’accorpamento dei carabinieri alla Polizia di Stato … L’Arma dei carabinieri in un futuro più o meno prossimo, ma certamente non remoto, è destinata ad un inevitabile scioglimento“. Poco meno di due anni fa la Camera dei Deputati ratificava ad unanumità l’accordo europeo per la costituzione di una forza armata speciale, chiamata EGF.

La Forza di gendarmeria europea (Eurogendfor o EGF) è il primo Corpo militare dell’Unione Europea a carattere sovranazionale. La EGF è composta da forze di polizia adordinamento militare dell’UE in grado di intervenire in aree di crisi, sotto egida NATO, ONU, UE o di coalizioni costituite “ad hoc” fra diversi Paesi.

Eurogendfor può contare su una forza di 800 “gendarmi”mobilitabile in 30 giorni, più una riserva di altri 1.500; il tutto gestito da due organi centrali, uno politico e uno tecnico. Il primo è il comitato interdipartimentale di alto livello, chiamato CIMIN, acronimo di Comité InterMInistériel de haut Niveau, composto dai rappresentanti dei ministeri degli Esteri e della Difesa aderenti al trattato. L’altro è il Quartier generale permanente (PHQ), composto da 16 ufficiali e 14 sottufficiali (di cui rispettivamente 6 e 5 italiani). I sei incarichi principali (comandante, vicecomandante, capo di stato maggiore e sottocapi per operazioni, pianificazione e logistica) sono ripartiti a rotazione biennale tra le varie nazionalità, secondo gli usuali criteri per la composizione delle forze multinazionali.

Non si tratta quindi di un vero corpo armato europeo, un inizio di esercito unico europeo, nel qual caso si collocherebbe alle dipendenze di Commissione e Parlamento Europeo, ma di un semplice corpo armato sovra-nazionaleche, in quanto tale, gode di piena autonomiaInfatti, la EGF non è sottoposta al controllo dei Parlamenti nazionali o del Parlamento europeo, ma risponde direttamente ai Governi, attraverso il citato interministeriale (CIMIN)

  • L’articolo 21 del trattato di Velsen, con cui viene istituito questo corpo d’armata sovranazionale, prevede l’inviolabilità dei locali, degli edifici e degli archivi di Eurogendfor.
  • L’articolo 22 immunizza le proprietà ed i capitali di Eurogendfor da provvedimenti esecutivi dell’autorità giudiziaria dei singoli stati nazionali.
  • L’articolo 23 prevede che tutte le comunicazioni degli ufficiali di Eurogendfor non possano essere intercettate.
  • L’articolo 28 prevede che i Paesi firmatari rinuncino a chiedere un indennizzo per danni procurati alle proprietà nel corso della preparazione o esecuzione delle operazioni.
  • L’articolo 29 prevede infine che gli appartenenti ad Eurogendfor non potranno subire procedimenti a loro carico a seguito di una sentenza emanata contro di loro, sia nello Stato ospitante che nel ricevente, in tutti quei casi collegati all’adempimento del loro servizio.

Nel trattato di Velsen c’è un’intera sezione intitolata “Missions and tasks“, in cui si apprende cheEurogendfor potrà operare “anche in sostituzione delle forze di polizia aventi status civile”, in tutte le fasi di gestione di una crisi e che il proprio personale potrà essere sottoposto all’autorità civile o sotto comando militare.

Tra le altre cose, rientra nei compiti dell’Eurogendfor:

  • garantire la pubblica sicurezza e l’ordine pubblico
  • eseguire compiti di polizia giudiziaria (anche se non si capisce per conto di quale Autorità Giudiziaria)
  • controllo, consulenza e supervisione della polizia locale, compreso il lavoro di indagine penale
  • dirigere la pubblica sorveglianza
  • operare come polizia di frontiera
  • acquisire informazioni e svolgere operazioni di intelligence

Il 14 maggio 2010 la Camera dei Deputati della Repubblica Italiana ratifica l’accordo. Presenti 443, votanti 442, astenuti 1. Hanno votato sì 442: tutti, nessuno escluso. Poco dopo anche il Senato dà il via libera, anche qui all’unanimità. Il 12 giugno 2010 il Trattato di Velsen entra in vigore in Italia. La legge di ratifica n° 84 riguarda direttamente l’Arma dei Carabinieri, che verrà assorbita nella Polizia di Stato, e questa degradata a polizia locale di secondo livello. Allo stesso tempo, l’art.4 della medesima legge introduce i compiti dell’Eurogendfor, tra cui:

a) condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico;

c)  assolvere  a  compiti  di  sorveglianza  pubblica,  gestione  del traffico,   controllo   delle   frontiere   e   attivita’ generale d’intelligence;

e) proteggere le persone e i beni e mantenere  l’ordine  in  caso  di disordini pubblici.

In pratica, significa che avremo per le strade poliziotti veri e propri, che non rispondono direttamente delle loro azioni nè allo Stato italiano, nè all’Unione Europea.

Forse non è a rischio solo lo scioglimento della Beneamata Arma ,potrebbe essere a rischio la sovranità nazionale

http://qpotere.blogspot.com/2012/01/scioglimento-dellarma-dei-carabinieri-e.html

tratto da : (clicca qui)